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FdS sul caro libri: “Si limitino le nuove edizioni e la Provincia faccia un comodato d’uso sui testi”

di Giulia Cuzzavaglio e Marta Logli

Il tema del caro libri è da sempre uno degli argomenti più caldi nel piccolo grande mondo della Scuola italiana. Le prime settimane di settembre sono cocenti da questo punto di vista: genitori, studenti pronti ad accaparrarsi gli ultimi libri al 50% rimasti, timorosi di essere purtroppo arrivati tardi. E ‘ un tema che coinvolge tutti: studenti, famiglie, insegnanti.

Ci siamo detti che fosse giusto parlare di ciò, inserendo il tutto in un quadro certamente più ampio, che fotografa una scuola italiana che stenta ancora una volta a garantire a tutti gli studenti il libero accesso ai saperi, alla cultura. In definitiva ad un’emancipazione culturale e sociale che li veda protagonisti di una società che cambia, muta e ha bisogno della nostra immaginazione, della nostra utopia per poter finalmente cambiare marcia.

Di qui nasce il tavolo del diritto allo studio della Federazione degli Studenti per dibattere sui temi riguardanti il mondo della scuola e cercare di migliorare il sistema nella nostra (seppur piccola) realtà provinciale. Tutto ciò ascoltando il parere di coloro che vivono questo mondo in prima persona, quindi gli studenti, ma anche quello di chi li accompagna in questo percorso: famiglie e i docenti.

Un dato emerge dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio provinciale su cui non possiamo non allarmarci: 17,80% di abbandono scolastico (sebbene sceso di 5 punti percentuali nell’ultimo quinquennio). Tra i ragazzi che hanno conseguito la licenza media più tardi (che costituiscono il 13% della popolazione studentesca), ben il 56% abbandona, e tra i ragazzi stranieri fa lo stesso il 52,5% del totale . Inoltre, osservando i dati della sezione “Drop Out” sui NEET, possiamo osservare che una delle barriere principali che spingono un ragazzo ad abbandonare la scuola (e una famiglia a non investire sul suo percorso formativo) è soprattutto quella economica.

In effetti, ogni anno le famiglie devono affrontare grandi spese per il materiale scolastico e, anche se alcune hanno la possibilità di ricevere degli aiuti economici, molte fanno fatica ad accedervi anche (non solo) per scarsa conoscenza dei servizi messi a disposizione loro. Nonostante ciò, anche per una famiglia con regolare fasciazione ISEE, il problema risulta emergere ed essere costante negli anni.

Per poter capire come far funzionare meglio il sistema a Prato abbiamo pensato di partire in primo luogo informandoci su come altri Paesi europei riescono ad ovviare tale problema. È emerso che in molti Paesi, come ad esempio in Francia, una svolta positiva è stata segnata dall’introduzione delle nuove tecnologie, sostituendo libri cartacei con tablet o ebook oppure accostando l’uno e l’altro.

Ovviamente ci siamo detti che fosse importante sapere quanto il costo del materiale scolastico pesasse sulle famiglie dei ragazzi e cosa gli studenti pensassero delle nuove tecnologie. Di qui la necessità di chiederlo direttamente a loro. Dall’analisi dei dati raccolti attraverso i questionari è risultato che più dell’85% dei ragazzi di ciascuna scuola vorrebbe che i libri fossero meno cari. Risulta poi un dato evidente più di altri: più dell’88% ritiene opportuno limitare le nuove edizioni. Raggiungiamo picchi del 98,93% al Livi e del 96,17% al Copernico. Non si esita a richiedere sconti su libri di narrativa, con oltre un 90% di consenso. Infine, il ruolo delle nuove tecnologie è finalmente messo in discussione: c’è un bun 51,57% al Copernico che dice sì in maniera netta, e un altro 42,97% che se ne avvarrebbe ma come mezzo integrativo.

(Rimandiamo comunque ai grafici e al file in pdf  Sondaggio Caro Libri FdS Prato)g1g2g3g4

E’ necessario investire dunque in servizi utili allo studente pratese, perché è evidente: la voglia di vivere la scuola c’è, la voglia di farla nostra anche.

Per questo chiediamo che si limitino le nuove edizioni e si istituiscano comodati d’uso sui libri nelle scuole superiori.

La prima richiesta la facciamo perché da sempre sappiamo che ci ritroviamo a dover acquistare libri che cambiano semplicemente impaginazione e pochissimi contenuti, e sappiamo che, una volta che la vecchia edizione non sarà più in commercio per scelte editoriali, dovremo per forza di cose acquistare la nuova edizione, più cara, di cui non troveremmo ancora il libro usato al classico mercatino di settembre.

Per combattere dunque le barriere economiche che si interpongono all’accesso allo studio, occorre che i dipartimenti scolastici adottino, qualora si volesse cambiare il testo corrente, edizioni già correnti, di cui più facile sarebbe la fruizione. Sarebbe un segnale non di poco conto: un giusto compromesso fra la libertà di insegnamento dei docenti e le necessità economiche delle famiglie.

La seconda proposta, quella del comodato d’uso, si inserisce poi in una visione più globale del sistema scolastico: non lasciare indietro nessuno. E questo, per quanto riguarda la didattica e le barriere economiche, lo si può benissimo fare se istituzioni e scuole superiori stringono un patto di alleanza.

Da una parte la Provincia si farebbe garante dell’acquisto di un numero x di libri di testo, dall’altra parte le scuole superiori garantirebbero la libera fruizione di essi da parte dei ragazzi in difficoltà con il “vincolo” restitutivo alla scuola, una volta terminate le necessità.

Sono proposte, soprattutto l’ultima, che intersecano inevitabilmente tutti i mondi della scuola superiore: studenti, famiglie, insegnanti e istituzioni. È necessario che dei patti siano stretti e lo chiediamo a gran voce, consapevoli che ciò si può fare. Il fine è garantire che quel 17.80% circa di ragazzi che abbandona la scuola superiori si abbassi notevolmente. Questo non per vedere un numero diverso, un numero più basso. Al contrario, semplicemente perché potremmo affermare con un pizzico di utopia di aver cambiato il mondo. Potremmo affermare che loro, quei ragazzi lasciati a se stessi, noi studenti, abbiamo cambiato il mondo .

Referendum 17 Aprile – Guida al voto

di Maria Logli, Francesco Bellandi e Stefano Nenciarini

Come Giovani Democratici di Prato abbiamo organizzato un incontro aperto per parlare del referendum del 17 Aprile. Abbiamo ritenuto necessario farlo perché crediamo che il ruolo di un Partito sia quello di coinvolgere i cittadini, fornendo loro i mezzi necessari per poter scegliere con consapevolezza, sopratutto in un periodo caratterizzato dalla sfiducia nella politica. In questo contesto, la giovanile ha il compito di inserirsi non solo nei dibattiti territoriali, ma anche in quelli di carattere nazionale e internazionale.

L’analisi si è svolta attraverso la presentazione di entrambe le posizioni: tra di noi ci sono opinioni discordanti, ma ci accomuna la volontà di promuovere la partecipazione della società civile attraverso l’espressione del voto.

Prima di esporre le diverse argomentazioni, ecco una piccola informativa sulle modalità di voto.

Si vota Domenica 17 Aprile e i seggi rimarranno aperti dalle ore 7 alle ore 23.

Questo il quesito presente sulle schede:

Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ‘Norme in materia ambientale’, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 ‘Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)’, limitatamente alle seguenti parole: ‘per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale’?

Di seguito, presenteremo le ragioni di entrambe le parti, così come emerse durante il dibattito.

Le ragioni del NO. Qualora vincesse il Sì, il referendum bloccherebbe il rinnovo delle concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti entro le 12 miglia dalle coste italiane. La chiusura degli impianti avverrà nel corso dei prossimi anni (in genere, fra i 5 e i 10).

Lo stesso nome attribuito al referendum è fuorviante e viziato: non si tratta di decidere se trivellare o no, né di dare nuove concessioni (la legge in vigore vieta nuove perforazioni entro le 12 miglia).

Sono emerse molte criticità in merito alla campagna che i promotori del sì stanno portando avanti: qui di seguito proveremo a dare gli esempi più importanti.

In primis, se le piattaforme sono già presenti e in funzione, è economicamente controproducente chiuderli in corso d’opera: il costo per lo smantellamento è alto, ed espone l’ambiente a rischi certificabili.

Le piattaforme attive interessate dal referendum sono 48, a fronte di un totale di 135: già questo dà un forte indizio sul perché il referendum in questione sia privo di logica. Infatti, se l’intento fosse stato quello di intervenire su tutto il comparto estrattivo, questo si sarebbe caricato di significato, e i cittadini sarebbero stati chiamati realmente a decidere il percorso da intraprendere in campo energetico (anche se un referendum consultivo sarebbe stato la scelta migliore in ogni caso).

Non dimentichiamoci, inoltre, che la produzione delle piattaforme interessate è principalmente di gas: solo 11 estraggono petrolio. Ma, nonostante possa sembrare una quantità trascurabile, nel breve periodo saremmo costretti a sopperire a questa mancanza acquistando lo stesso quantitativo di petrolio da altri Paesi, operazione che porterebbe delle conseguenze significative:

    • Il mancato indotto relativo alle royalties (ovvero il denaro versato nelle casse dello Stato da parte di quelle compagnie in possesso delle concessioni), unito alla spesa dovuta all’acquisto del petrolio da altri Stati, impoverirà lo Stato. Se l’obiettivo dell’Italia è quello di una progressiva (e sostenibile) transizione verso le rinnovabili, impoverirsi non è certo la strada migliore per raggiungerlo, considerati i costi della suddetta transizione.

 

    • L’acquisto di petrolio da altri Paesi significa necessariamente il transito di centinaia di petroliere in più nei nostri mari, aumentando sensibilmente non solo l’inquinamento marittimo, ma anche il rischio di disastri ambientali. Infatti, gli incidenti dovuti a versamenti da parte delle navi sono largamente più probabili di quelli causati da un malfunzionamento delle piattaforme: in Italia l’estrazione è sicura e a basso rischio, inoltre niente viene scaricato a mare e i detriti di perforazione vengono raccolti e inviati a terra in centri autorizzati per lo smaltimento.

Da un punto di vista strettamente economico, l’indotto lavorativo (sia diretto, ovvero i laboratori delle piattaforme, che indiretto, ovvero coloro che lavorano con i prodotti delle piattaforme) è molto ampio e il ricollocamento di questi soggetti è complicato, almeno nel breve termine. Un caso eclatante è quello di Ravenna, dove sono occupate più di 6000 persone (non è un caso che l’Emilia Romagna non ha firmato, nonostante sia la regione con più piattaforme interessate).

Parlando poi del problema turismo, citato più volte dalle campagne per il sì, è accertato che questo non risente della presenza di piattaforme: l’Emilia Romagna possiede nove bandiere blu, una certificazione internazionale sul basso tasso di inquinamento marittimo.

L’aspetto ambientale e di inquinamento è tutto da verificare: prendendo a esempio la piattaforma Vega (nel ragusano), sotto processo da sette anni per dei presunti versamenti da parte di un pozzo petrolifero. Ebbene, nessuno è mai riuscito a dimostrare un aumento dell’inquinamento di quelle acque, nonostante i controlli regolari. Questo è un caso eclatante di come la propaganda populista, che ha condotto una campagna diffamatoria contro la succitata piattaforma, induca a distorcere la realtà dei fatti, chiedendo la chiusura di un impianto che non solo frutta 20 milioni di Royalties ogni anno, ma dà lavoro a 300 ragusani, senza contare tutti quelli della raffineria di Gela, che utilizza il petrolio estratto da Vega.

Infine, è necessario affrontare anche l’aspetto politico che ha portato a questo referendum: la raccolta firme da parte delle regioni, per come è stata portata avanti, ha dato l’impressione di essere solo una manovra studiata per ribadire il proprio peso in ottica del referendum costituzionale di ottobre, dove sarà in gioco (tra l’altro) il titolo V della costituzione, ovvero proprio quello sul rapporto Stato – Regioni.

La vittoria del sì non darà, quindi, alcun messaggio politico dettato dai valori ambientalisti sbandierati dalla propaganda, ma sarà solo un punto segnato dalle forze che si oppongono ad alcune manovre dell’attuale Governo, e che hanno strumentalizzato il sacrosanto desiderio di gran parte dei cittadini di rivedere il piano energetico nazionale. Il governo deve e vuole comunque affrontare il transito verso fonti di energia alternative, ma questo referendum, per come è stato proposto e per la specificità del suo quesito, non può essere il mezzo attraverso cui rappresentare le istanze di cambiamento volute dalla maggior parte di noi, e necessarie sia al nostro Paese che al mondo intero.

Le ragione del SI. L’estrazione dei combustibili fossili non contribuisce in maniera particolarmente rilevante all’autosufficienza energetica nazionale, poiché la ricchezza che produce va all’Italia solo per il 7-10%: una percentuale minima, considerando che quella della Norvegia, ad esempio, è dell’80%.

Lo studio condotto da Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca) mostra che dal 2012 al 2014 si sono verificati superamenti dei livelli stabiliti degli agenti inquinanti nel corso della normale amministrazione, ed un altro studio, ancora una volta di Ispra, mostra che le attività estrattive provocano danni rilevanti sugli ecosistemi marini.

In tal caso sarebbe in pericolo la pesca, che produce il 2,5% del Pil e dà lavoro a quasi 350.000 persone, contro le 10.000 persone che svolgono attività legate all’estrazione di combustibili fossili.

Risulta ormai evidente che tramite le fossili non si possa raggiungere alcun tipo di autonomia energetica, considerando che in due anni l’apporto del petrolio e del gas è sceso dal 72,1% al 64% e, di questa percentuale, noi produciamo il 7% ed importiamo il resto; quello delle rinnovabili è invece passato dal 13.3% al 20%.

Inoltre, per quanto riguarda le piattaforme interessate dal referendum, secondo i dati del ministero dello sviluppo economico il petrolio ed il gas corrisponderebbero rispettivamente all’1% e al 3% circa del fabbisogno nazionale, quantità tali da garantire all’Italia energia per due mesi. In tutto, se si contano anche le piattaforme non interessate dal referendum, petrolio e gas contribuiscono rispettivamente per il 10,3% ed il 11,8%.

Alla conferenza sul clima di Parigi 194 paesi si sono posti vari obiettivi, tra i quali quello di contenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 2 gradi con lo scopo preciso di restare entro 1,5 gradi; è dunque importante mantenere i due terzi delle riserve di combustibili fossili sotto terra e frenare l’incremento delle emissioni di gas serra fino alla possibilità di un riassorbimento naturale entro metà secolo.

Anche nel 2015, nonostante il crollo del prezzo del petrolio e il rallentamento di alcune economie emergenti, non si è fermata la crescita delle energie verdi, con una spesa complessiva di 329 miliardi di dollari (+4%): prime tra tutte la Cina, seguita da India, Sud Africa e Sud America. L’Italia ha raggiunto il 38% di energie rinnovabili. Sulla base di questi dati si potrebbe dunque ritenere che la direzione che abbiamo preso sia quella giusta per il pianeta ed in linea con gli obiettivi posti dalla COP21, e che questo processo si possa dunque gradualmente integrare con l’impiego delle fossili senza il rischio di perdita di energie per il fabbisogno nazionale, seppur minime, e posti di lavoro.

Tuttavia, in Europa si registra una controtendenza del -18%, e l’Italia ha arrestato l’incremento: nel corso del 2014 i ritmi di crescita sono purtroppo molto inferiori rispetto al passato. Per il fotovoltaico sono stati installati 1.864MW contro i 13.194 del biennio 2011-2012; nell’eolico 170MW nel 2014 contro una media di 770 negli anni passati; situazione similare per mini idroelettrico e le altre fonti. Questo perché mancano da un lato procedure chiare per l’approvazione di progetti, fatto che blocca gli impianti eolici, solari termodinamici, da biomasse e idroelettrici, dall’altro servono certezze in un settore che ha subito una serie di interventi normativi che introducono tagli agli incentivi. E’ dunque questo il motivo principale per cui il referendum è di fondamentale importanza per il significato politico che il voto, in un contesto come quello descritto e all’indomani della Conferenza delle Parti, va ad assumere.

Per concludere

E’ grave che una democrazia del XXI secolo debba oggi domandarsi quale sia la priorità tra ambiente e lavoro, quando è ormai chiaro che il presente ci chiede di investire sulle energie rinnovabili: prima adattiamo un piano di politica energetica a tale esigenza, più possibilità avremo di non rimanere estromessi dalle logiche di mercato. Il 2014/2015, infatti, è stato il primo anno in cui l’economia è cresciuta e allo stesso tempo si è verificata una riduzione di CO2, come sottolinea Galletti, ministro dell’Ambiente.

Nonostante le divergenze di merito, circoscritte allo specifico quesito, vogliamo affermare la necessità di un’informazione chiara, non soggetta a populismi e strumentalizzazioni, sia di carattere falsamente ideologico che guidate da interessi economici parziali. Abbiamo infatti constatato come, durante la propaganda condotta da entrambi gli schieramenti, non siamo mancate argomentazioni fuorvianti, basate su presupposti inesatti o non attinenti al tema trattato.

Riteniamo inoltre che, a prescindere dall’esito del referendum, sia essenziale un nuovo piano energetico nazionale, concepito sui concetti di sostenibilità, innovazione e rispetto dell’ambiente. L’Italia deve avere l’ambizione di porsi come avanguardia nel settore energetico, e guidare l’Europa attraverso questa cruciale transizione. Noi Giovani Democratici dobbiamo farci promotori di queste nuove istanze, e rappresentare un faro d’innovazione per la nostra generazione: ecco perché vogliamo ribadire l’invito a partecipare attivamente al voto del 17 Aprile.

Per saperne di più, sfoglia la Guida al voto dei GD Toscana.12321515_1717048348552671_2839799574890624561_n

Regeni: dalla parte della verità

di Silvia Gianotti

Cosa vuol dire essere liberi, e lottare affinché gli altri possano esprimere e diffondere le proprie idee?

Forse, Giulio Regeni avrebbe saputo rispondere a questa domanda; un giovane ed eccellente dottorando che era in Egitto per svolgere una ricerca riguardo la situazione dei sindacati politici indipendenti nel contesto di quella fragile democrazia, doveva per forza avere un’idea abbastanza chiara al riguardo.

Sappiamo purtroppo fin troppo bene qual è stato il triste epilogo di una storia che non dovrebbe neanche essere immaginabile: non è accettabile in nessun angolo del mondo che una persona sia uccisa e resa irriconoscibile dai trattamenti inumani e degradanti (leggi torture) subiti, in una maniera tale che neanche la madre sia in grado di riconoscerlo.

Non sarebbe dovuto accadere, punto. Tanto più se pensiamo che stiamo parlando di un ricercatore, che aveva per scopo soltanto quello di conoscere il più accuratamente possibile una realtà come quella egiziana, e per quanto complicata questa possa essere non si era lasciato scoraggiare; e ciò è – non può non essere visto come tale – un attacco alla libertà accademica che ha portato numerosi professori, dottorandi, persone in generale appartenenti a questo mondo (stiamo parlando di più di 4600 accademici a livello mondiale) a firmare una lettera aperta sulla questione.

Lo stesso hanno fatto tante persone comuni.

La famiglia Regeni ha dato un esempio di compostezza e dignità, pur nell’immenso dolore che si è trovata ad affrontare; noi, come Giovani Democratici e Federazione degli Studenti, insieme al  PD di Prato ci sentiamo di dare il nostro pieno appoggio e di aderire alla campagna “Verità per Giulio Regeni” portata avanti da Amnesty International, come anche la Consulta Provinciale degli Studenti di Prato, perché finalmente venga fuori non una versione di comodo, diversamente da quel che è accaduto finora (e ripetutamente, in maniera vergognosa), ma ciò che è successo veramente, con le assunzioni di responsabilità di tutti coloro che sono coinvolti; se lo è, anche del governo egiziano, relativamente al rapimento, alla tortura e all’uccisione di un ragazzo di 28 anni senza altra colpa che quella di voler comprendere la realtà intorno a lui.

Non abbiamo bisogno di una “versione ufficiale” per contentino, non accettiamo altri depistaggi da parte di coloro che si vogliono presentare come collaboratori nella ricerca della verità; vogliamo sapere come sono andate realmente le cose, pretendiamo una verità accertata e indipendente.

Sui diritti umani non si scherza.

Giulio Regeni non lo meritava. La sua famiglia non lo merita; i suoi amici e i suoi colleghi neanche.Lo dobbiamo anche a tutti i ragazzi egiziani scomparsi perché oppositori, prelevati a casa, in strada, a scuola o sul lavoro, che non hanno uno Stato a prendere le loro parti.

La nostra intenzione non è politicizzare il dolore privato della famiglia e pubblico di tutta la comunità che le si è stretta intorno, ma semplicemente dare un segnale di vicinanza e di sostegno, perché in situazioni del genere non è possibile non prendere posizione, o peggio continuare facendo finta che niente sia successo. Vogliamo stare dalla parte della verità, come dice il nome della campagna stessa.

E proprio per questo vedere quegli striscioni gialli di Amnesty International appesi ovunque – penso a quanto siano numerosi soltanto nella mia Vernio, a quanti ne abbia visti in tutta la provincia – mi riempie davvero il cuore di orgoglio e di speranza: forse, se le persone non rinunciano, hanno ancora la forza di mobilitarsi in occasioni come queste, pensare a un mondo migliore non è un’utopia, ma un dovere.

Venerdì 15 aprile alle 18:30 saremo quindi presenti al flash mob in Piazza del Comune, per ribadire che non ci accontentiamo di una finta verità, non possiamo farlo se vogliamo poter continuare a guardarci allo specchio con un briciolo di dignità.

Vi aspettiamo numerosi, a condividere anche questo momento.

Tutto quello che c’è da sapere sulla Riforma Costituzionale

di Silvia Gianotti

Se dovessimo pensare per un attimo a tutte le riforme della Costituzione (che mi piace pensare Benigni non esageri a definire la più bella del mondo) succedutesi nel tempo, dovremmo partire da lontano; nel 1963, appena quindici anni dopo l’entrata in vigore, si sono avute le prime modifiche; l’ultimo intervento è stato appena 4 anni fa, nel 2012.

Se i Principi Fondamentali, cioè i primi dodici articoli della Costituzione, e la Prima Parte (Diritti e Doveri dei Cittadini, dall’art. 13 al 54) contengono valori, norme di principio, diritti, libertà, che sono irrinunciabili visto che rappresentano la base sulla quale si sviluppa l’intera architettura della nostra Repubblica, nella Seconda Parte invece prende corpo quello che potrebbe essere definito come lo scheletro, l’ossatura fondamentale dei vari organi dello Stato.

La riforma costituzionale che è arrivata a metà del suo percorso in Parlamento va a toccare diversi punti riguardanti l’Ordinamento della Repubblica che andrò brevemente a illustrarvi, per come ne sono in grado. Come Giovani Democratici di Prato ci teniamo a informarci e informarvi sul tema, non solo perché probabilmente il prossimo autunno saremo chiamati ad esprimerci in merito, ma anche e soprattutto perché conoscere la nostra Costituzione è indispensabile per avere la chiave di lettura di tutto quello che succede nell’attualità: si sa, un edificio senza buone fondamenta non regge, e noi vogliamo darvi gli strumenti per costruire una castello di conoscenze indistruttibile!

Partiamo quindi ad analizzare i principali punti dell’attuale percorso di riforma.

Superamento del bicameralismo perfetto e Senato\nIl primo punto fondamentale da affrontare, oggetto di dibattiti infiniti, è il cambiamento del ruolo del Senato della Repubblica. Questo oggi è essenzialmente un “doppione” della Camera dei Deputati, con la metà dei suoi membri: stesse funzioni, stessi poteri; aveva un senso, non è stato soltanto un inutile appesantimento dei lavori: dopo l’uscita dal regime totalitario fascista era stato pensato come uno strumento a protezione della fragile e nuova democrazia.

Con questa riforma costituzionale, si ritiene che i tempi siano maturi per uno snellimento delle laboriose procedure che richiede il cosiddetto bicameralismo perfetto, vale a dire la parità su ogni versante di Camera e Senato.

Il Senato diventerà infatti la camera di rappresentanza di Comuni e Regioni. I membri si ridurranno da 315 a 100; di questi 21 saranno sindaci, 74 consiglieri regionali indicati con apposita preferenza dagli elettori alle elezioni regionali, e 5 nominati dal Presidente della Repubblica (un po’ come gli attuali senatori a vita, con la differenza che la loro carica avrà una durata di 7 anni, rimarranno a vita soltanto gli ex Presidenti della Repubblica). I nuovi senatori non avranno diritto a un’indennità per l’esercizio della loro funzione, soltanto a eventuali rimborsi spese.

Solo la Camera voterà la fiducia al Governo, e la maggior parte delle leggi saranno approvate soltanto da questa. Il Senato si esprimerà su leggi che riguardano la sua natura di istituzione di rappresentanza degli enti locali e di raccordo con Stato e Unione Europea, nonché sulle leggi costituzionali e di revisione costituzionale, su referendum popolari e leggi elettorali.

Inoltre, il governo avrà la possibilità di richiedere che disegni di legge ritenuti essenziali per l’attuazione del programma di governo possano avere una via preferenziale per l’esame da parte della Camera: questo è uno strumento che consentirà agli elettori di giudicare i governi sulla base del loro effettivo operato, senza che questi possano addurre come scusante il fatto di non aver avuto il tempo e il modo di portare avanti i punti del loro programma.

Presidente della Repubblica\nCambiano le modalità di elezione: prima di tutto, non si ha più il bisogno di coinvolgere i delegati regionali (già i senatori rappresentano le istanze locali), e vengono alzati i quorum, cioè il numero di parlamentari necessari per arrivare all’elezione, nel tentativo di andare alla ricerca del più ampio consenso possibile su un nome.

Visto che la Camera dei Deputati è l’unica direttamente eletta, il sostituto del Presidente della Repubblica nel caso in cui egli non possa esercitare le sue funzioni sarà il Presidente della Camera, non più quello del Senato.

Stato e Regioni: riorganizziamoci!\nUna considerazione a parte la merita l’articolo 117 della Costituzione, riguardante la divisione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, che era stato ritoccato quindici anni fa, con la cosiddetta Riforma del Titolo V (l. cost. 3/2001); in tale occasione erano state enumerate le competenze riservate esclusivamente allo Stato, quelle riguardo cui lo Stato dettava la cornice in cui si sviluppava poi la normativa di dettaglio delle varie Regioni (materie di competenza concorrente), e infine venivano lasciate le restanti materie, non citate espressamente nell’articolo, alla competenza regionale.

Tutta la complessa architettura che si era venuta a creare aveva portato molte controversie di fronte alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzioni: sia le Regioni che lo Stato cercavano di estendere il più possibile le loro competenze, e la Consulta più volte si era trovata a dover concedere ampio spazio di movimento allo Stato centrale, viste anche le condizioni di recessione dal 2008 in poi (sfruttando l’argomento della necessità di un “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”).

Appurato il fallimento di questa organizzazione delle competenze, viene soppressa la competenza concorrente, lasciando soltanto due elenchi di materie, uno di competenza statale, l’altro di competenza regionale (le materie non espressamente citate sono di competenza regionale).

Completiamo il puzzle…\nViene aggiunto in Costituzione il riferimento allo statuto delle opposizioni e inserito un riferimento anche all’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza” (nuovo art. 55). Queste misure venivano sollecitate da tempo, se ne era parlato molto senza però riuscire a realizzare niente in questo senso finora.

Per (non) concludere\nSicuramente saranno tantissimi i dubbi rimasti e le domande che vi sono venute in mente dopo aver letto questo mio tentativo di chiarimento.

E allora domani, martedì 12 aprile, alle ore 21:15 vi proponiamo di venire in Sala Ovale a Palazzo Banci-Buonamici, in via Ricasoli: il Professor Carlo Fusaro, costituzionalista e docente dell’Università di Firenze, sarà intervistato da Stella Spinelli, e grazie alle sue competenze in materia saprà essere esaustivo e chiaro su ogni aspetto della riforma costituzionale.

Non mancate!

Cosa significa integrazione e perché vogliamo parlarne

di Maria Logli

L’integrazione, in relazione all’immigrazione, è un concetto particolarmente delicato, che suscita più o meno legittimamente critiche di carattere ideologico, economico, culturale e di sicurezza: alla base di molte argomentazioni vi sono spesso la volontà di preservare la nostra identità culturale e le nostre tradizioni, di evitare eccessi di buonismo in un momento di crisi, di porre in luce l’inconciliabilità degli aspetti caratteristici di differenti civiltà o religioni (prevalentemente in riferimento a quella islamica), e di sottolineare l’ingiustizia di fondo che risiede nelle concessioni date ai migranti quando non ci sono sufficienti tutele per gli italiani, che dovrebbero essere la preoccupazione prioritaria dei politici.

Perché, dunque, vogliamo l’integrazione?

Integrazione è un termine che ha valore reciproco e si riferisce all’atto di unirsi, fondersi o completarsi, spesso attraverso il coordinamento dei propri mezzi; l’integrazione tra Stati, ad esempio, è il processo attraverso il quale questi attuano fra loro una cooperazione tendendo all’unificazione delle proprie risorse.

Forse è proprio per questo aspetto della reciprocità che talvolta vengono sollevate polemiche sul fatto che la spinta verso l’integrazione debba venire prima di tutto dall’altro, colui che arriva; si afferma inoltre che un’integrazione totale sia utopica o che richieda eccessivi sforzi di tipo economico sulle spalle degli italiani, nonché l’inevitabile rinuncia ad una parte fondamentale delle nostre tradizioni e della nostra identità culturale. Nel sostenere l’impossibilità di gestire in modo tollerabile un afflusso tale da poter essere definito “invasione”, sia numerica sia culturale, si è soliti citare, in particolare, il caso degli islamici.

Per quanto riguarda l’idea di un’invasione, proposta con frequenza da alcuni schieramenti politici e media, non vi sono dati che possano soddisfare le condizioni affinché tale concetto sia attinente alla nostra situazione. In vent’anni la proporzione dei musulmani rispetto agli stranieri in Italia non è cambiata: nel 1993 i musulmani erano circa 318mila, un terzo del totale di stranieri (987.505); come emerge dalla rilevazione di Idos del 2015, nella redistribuzione complessiva dei credenti stranieri in Italia, la loro non è cresciuta, ma è rimasta stabile al 32%.

E’ dello stesso giudizio anche Open Migration, un portale informativo dedicato alle migrazioni e agli stereotipi che sono alla base delle interpretazioni allarmiste. In Italia abbiamo l’8,2% di stranieri, leggermente superiore all’incidenza media in Europa del 6,7%, ma ci precedono la Svizzera (23,8%), l’Austria (12,4%), l’Irlanda (11,8%), il Belgio (11,3%), la Spagna (10%), la Norvegia (9,4%) e la Germania (8,7%). Un paese come la Francia che prevede il diritto di cittadinanza per nascita nel paese, detto “Ius Soli”, numericamente risulta avere un’incidenza di stranieri minore rispetto agli altri paesi (6,3%), poiché i figli di stranieri vengono considerati cittadini francesi.

Per quanto riguarda la frequente polemica sui soldi spesi per il lusso degli immigrati, si fa forse riferimento ai 35 euro al giorno che vengono dati alle cooperative per gestire ciascun richiedente asilo, e che quest’ultimo non vedrà se non in minima parte e tramite beni di prima necessità; sui problemi economici che gli immigrati ci portano, poi, la riflessione è interessante osservando i dati dell’Istat e del Ministero delle Finanze, dai quali emerge che, in relazione agli stranieri, le entrate dell’anno 2014 ammontano a 16,5 miliardi mentre le uscite a 12,6, per un saldo di +3,9 miliardi.

Dunque, dato che l’immigrazione è sostenibile dal punto di vista economico e del tutto prevedibile dal punto di vista numerico, non resta che parlare della perdita della nostra identità culturale e della nostra tradizione.

Quando sentiamo che la nostra tradizione è in pericolo, interroghiamoci su cosa siamo, in cosa ci identifichiamo, da dove veniamo. Se ci guardiamo alle spalle, capiremo che non siamo giunti qui con una tradizione immutata: i nostri costumi non provengono da un preciso territorio, nel quale era stanziata l’unica e antica popolazione italica, ma siamo un meraviglioso miscuglio eterogeneo d’inscindibili combinazioni di popoli. Possiamo attraversare il mondo identificandoci ora con una famiglia di Betlemme, ora con Ulisse che attraversa il mare, e risalire alle nostre origini attraverso gli influssi arabi in Dante o quelli orientali nell’ellenismo. Da chi dovremmo difenderci? Tutto ciò che oggi fa crescere in noi la paura di snaturarci, è già in noi.

E, se anche la nostra tradizione fosse rimasta statica, quanto sarebbe effettivamente utile e realistico pretendere che tutto resti com’è, nella visione anacronistica di una sorta di Stato nazionale in cui la cittadinanza ha una cultura omogenea che corrisponde ai limiti geografici? Solidità non è sinonimo di staticità: una dinamica di collaborazione e di costante dialogo tra elementi del passato e necessità che si prospettano per il futuro può portarci a plasmare la città sui propri abitanti, che, sentendosi rappresentanti, possono contribuire al benessere della realtà a cui appartengono, fino all’instaurarsi di un circolo virtuoso tra istituzioni e cittadinanza, in cui nessuno viene lasciato fuori.

Se il problema è che attualmente, come paese dell’Unione Europea, abbiamo raggiunto una presunta superiorità culturale o abbiamo visto un processo d’incivilimento e democratizzazione che i migranti non hanno conosciuto nei paesi da cui provengono, dovremmo allora impugnare questa suddetta civiltà con ciò che la caratterizza e ne è vanto, e affrontare il presente in maniera coerente con valori quali la tolleranza, l’inclusione, l’uguaglianza. Civiltà significa anche consapevolezza che una realtà integrata con se stessa è più forte, poiché gli individui che giungono a sentirsi pienamente cittadini e che hanno sviluppato un saldo senso d’appartenenza possono facilmente riconoscersi nel sistema di valori che rende una società coesa: sta alle istituzioni fornire ad ogni individuo gli strumenti per divenire cittadino, cosicché quest’ultimo possa contribuire al benessere della comunità.

Scegliamo l’Area Vasta, scegliamo il futuro

di Stefano Nenciarini e Francesco Bellandi

Come è noto, gli enti provinciali stanno procedendo verso una graduale eliminazione. Questo processo ci invita a riconsiderare il piano sul quale attuare le nostre politiche future: un piano che deve necessariamente espandersi da quello provinciale, e che ci spinge a una maggior collaborazione tra i comuni limitrofi e non solo. Noi riteniamo che sia ormai naturale pensare allo sviluppo di una città non solo entro i suoi confini, ma anche nei rapporti che ha con le realtà vicine: l’area metropolitana ha le potenzialità per diventare il centro nevralgico dell’Italia centrale, e uno dei più importanti dell’intero Paese. La collaborazione tra le realtà della piana è necessaria sotto molti aspetti che interessano la vita dei cittadini, e in particolare dei giovani.

Un esempio è la mobilità: una pianificazione intelligente potrebbe dare un enorme aiuto ai tantissimi studenti che si spostano verso l’Università di Firenze, o a chi non lavora nel proprio comune di residenza (un’evenienza che ad oggi rappresenta la normalità).

Pensiamo anche alla cultura: l’area metropolitana infatti possiede almeno tre eccellenze in quest’ambito. Firenze da sempre è una delle capitali mondiali dell’arte, ma non dobbiamo scordarci di Pistoia, eletta Capitale della Cultura 2017 (e che ospita uno dei festival musicali più interessanti d’Italia), e di Prato, che rappresenta e vuole rappresentare la città della contemporaneità: non solo per il museo Pecci, ma anche e sopratutto per la comunità multiculturale che le dà l’ambizione di diventare una realtà cosmopolita, che fa delle differenze la propria ricchezza.

Ovviamente non possiamo prescindere dall’aspetto economico: la moda, il tessile, l’agricoltura e molti altri settori potranno trarre giovamento da una collaborazione accurata e volta a far emergere le eccellenze territoriali.

Proponiamo di calendarizzare un ciclo di iniziative che garantisca la copertura dell’intero territorio al fine di informare i cittadini sui punti critici dell’area metropolitana, in particolare la questione dell’ampliamento dell’aeroporto, che ad oggi è vittima di forte disinformazione, sopratutto nella zona pratese.

Noi Giovani Democratici ci impegneremo a promuovere la sinergia in quest’area, creando un dialogo costante che dia a ciascuna federazione quelle conoscenze e quelle competenze necessarie per sviluppare al meglio le idee che emergeranno dai nostri iscritti. Contemporaneamente, dovremo porci come mediatori tra amministrazioni e associazioni, con l’obiettivo di migliorare il dialogo e favorire il processo di crescita dell’intera piana.

Crediamo quindi che sia necessaria la formazione di un tavolo istituzionale in cui ogni città dell’area metropolitana condivida quelle che sono le proprie eccellenze, con l’obiettivo di promuovere sia lo scambio di idee, sia una visione comune sullo sviluppo territoriale.

Dobbiamo immaginare l’area vasta come un unico centro economico, il cui sviluppo sia legato sopratutto al turismo e alla moda.

Saranno necessarie politiche volte a creare servizi più efficienti per migliorare l’offerta turistica, che nella nostra area rappresenta uno dei settori più redditizi.

Dobbiamo capire che la piana può ambire a diventare anche uno dei fulcri della moda internazionale: il tessile pratese potrebbe sposarsi con i grandi marchi fiorentini, e un area come quella ex Banci, collocata centralmente sia a Prato (vicina al Pecci e all’uscita autostradale) che rispetto all’intera area metropolitana può diventare la vetrina che presenti al mondo i prodotti di eccellenza delle nostre realtà.

Prato città del libro

di Maria Rita Paratore

La Prato che ci immaginiamo è una città che faccia del libro, della lettura e dei suoi spazi un punto di forza. Questa è la prima campagna che il tavolo scuola dei Giovani Democratici si sente il dovere di portare avanti, completando il percorso già avviato nelle scuole dalla Federazione degli Studenti di Prato per quel che concerne i libri di testo e la limitazione delle nuove edizioni.

A fronte di un 18% di abbandono scolastico in un range tra i 13 e i 18 anni, dobbiamo chiederci infatti cosa c’è che non va nel sistema scolastico, e soprattutto cosa la città ancora non offre agli studenti.

Non ci siamo mai accontentati della semplice frase “Non ha voglia di studiare”. Non ci crediamo, non ci vogliamo credere. Se è vero che la radice latina del verbo “studeo” significa amare, noi dobbiamo ritornare a riempierla di un senso vero.

Ed ecco che parlare di scuola e dei suoi studenti significa inevitabilmente parlare di società. Significa chiedersi quale società vogliamo costruire, quali cittadini vogliamo formare, in definitiva quale aspetto vogliamo per la città di domani.

Crediamo che una città che riparta dal libro, sia una città che renda possibile l’emancipazione sociale e culturale di ciascuno, permettendo quindi libertà di pensiero e formando coscienze critiche.

Non è semplice intraprendere questo percorso: servono tempo e investimenti. Prima di tutto però, serve un progetto e un percorso condiviso che non si limiti a dialogare solo con un’unica categoria, ma che affronti poliedricamente la questione.

Vogliamo capire qual è il profilo del “lettore pratese” e quale invece il profilo di chi non legge, per capirne le ragioni, così da trovare una soluzione al problema. Per questo motivo ci siamo proposti, in primo luogo, di iniziare una campagna di ascolto. Coinvolgeremo prima di tutto quella fascia di giovani che va dai 13 ai 20 anni per capire le loro esigenze; gli insegnanti, così da rimettere in questione in positivo il loro ruolo fondamentale di educatori e di formatori dei futuri cittadini; ascolteremo poi le librerie e le biblioteche, le associazioni che in città operano e progettano sul tema e le categorie economiche.

Tutto ciò ci servirà per avere una fotografia più nitida e chiara di quella che è la realtà pratese e ci aiuterà a dare qualità e validità alle nostre proposte.

Già la Federazione degli Studenti si è messa in moto per capire nelle scuole come risolvere il problema del caro libri. Parlando con gli studenti, risulta evidente la necessità di abbattere i costi dei libri scolastici, poiché gravano sempre di più sulle famiglie. Di qui la proposta di limitare le nuove edizioni e di istituire un comodato d’uso, con l’aiuto di Provincia e Scuole Superiori. Il lavoro della Federazione degli Studenti mette in luce quindi una questione fondamentale: le barriere economiche sono un grande ostacolo alla fruizione dei saperi.

Alla luce di questo, vogliamo impegnarci e non vogliamo farlo da soli. Più idee ci sono, più il nostro lavoro sarà completo. Quindi non esitare a dire la tua, vieni a trovarci ai prossimi incontri che faremo.

Intanto ti aspettiamo il 1 aprile in Via Carraia alla prossima riunione del tavolo scuola.

L’accoglienza dei migranti a Prato

di Maria Logli

A causa della preoccupante crescita dei conflitti degli ultimi 5 anni (8 nuove guerre in Africa, 3 in Medio Oriente, 3 in Asia ed 1 in Europa) il numero di persone che decidono di migrare è in crescita: si registrano, secondo l’UNHCR, 60 milioni di rifugiati, dei quali 38,2 milioni sono sfollati interni, 1 milione e 800 mila persone richiedono l’asilo, mentre i rifugiati in senso stretto arrivano a quasi 20 milioni.

Gli arrivi via mare nel corso del 2015 sono stati 366.402, il cui 49% proviene dalla Siria, il 12% dall’Afghanistan, l’8% dall’Eritrea, il 4% dalla Nigeria, il 3% dall’Iraq, il 3% dalla Somalia, il 2% dal Sudan, il 2% dalla Repubblica del Gambia, l’1% dal Bangladesh ed altrettanti dal Senegal.

Per quanto riguarda le rotte, le principali sono due: quella italiana, per i provenienti da Tunisia, Libia, Egitto, Turchia e Grecia, che puntano soprattutto a Francia e Nord Europa, e quella balcanica, poiché dalla Grecia si intende passare attraverso Macedonia e Serbia per raggiungere l’Ungheria.

Infatti, in quanto ad arrivi, la Grecia è il paese che ha subito il flusso maggiore (244.855 persone) mentre in Italia circa la metà (119.500 arrivi). A Malta sono registrati 94 arrivi.

In un periodo storico in cui i flussi migratori sono dunque ormai prevedibilmente crescenti, è necessario cambiare la connotazione emergenziale che ancora caratterizza il sistema d’accoglienza per strutturare una soluzione che affronti la problematica in modo più globale.

A livello dei singoli territori, di conseguenza, un problema d’integrazione viene gestito come un problema d’ordine pubblico.Per capire il funzionamento del sistema d’accoglienza a livello pratese, abbiamo deciso d’incontrare le associazioni che hanno vinto il bando della prefettura per occuparsi di tale servizio: Opera Santa Rita, Cooperativa Pane e Rose, Consorzio Astir.

Dai primi incontri informali abbiamo imparato moltissimo, dal criterio di distribuzione (che avviene secondo la decisione ministeriale, in proporzione alla popolazione a livello provinciale) alle modalità con cui si svolge la richiesta d’asilo, dai servizi che vengono dati al richiedente alle misure prese al fine di renderlo autonomo una volta che si è inserito nel successivo sistema di protezione (SPRAR).

Abbiamo incontrato gli operatori che si occupano di accoglienza con la Cooperativa Pane e Rose, che si sono mostrati disponibili a raccontare la loro esperienza lavorativa, grazie alla quale abbiamo potuto riflettere su quale potesse essere il nostro contributo.

E’ emersa la volontà di creare situazioni in cui queste persone possano uscire dagli appartamenti e stringere legami, prender parte a delle attività, sentirsi parte di una società, autonomizzarsi dal punto di vista psicologico, sociale ed, ovviamente, economico.

Per fare ciò, è importante che non abbiano solo rapporti in cui ricevono, ma anche in cui danno: i momenti di scambio sono fondamentali e non possono dipendere esclusivamente dalla volontà di alcuni volontari. Per questo vorremmo istituzionalizzare incontri in cui sia possibile questo tipo di interazione con associazioni che svolgono attività sportive, ricreative, culturali.

Sarebbe inoltre interessante mettere a contatto una realtà come quella dei profughi con individui provenienti dall’ambiente scolastico, cosicché si crei un’opportunità costruttiva e formativa dal punto di vista relazionale, linguistico e culturale: potrebbero aver luogo tandem linguistici, scambi culturali, tornei sportivi e molto altro con alunni che frequentano le scuole medie superiori e studenti delle università straniere presenti a Prato nonché delle università presenti nei territori limitrofi.\n\nPer intraprendere questo percorso è nostra intenzione incontrare\nassociazioni con le quali instaurare un rapporto di collaborazione, visitare gli appartamenti in cui i migranti vengono ospitati, organizzare iniziative e vivere un’esperienza che ci accrescerà dal punto di vista personale e politico.

Se siete interessati potete unirvi a noi: la data dei prossimi incontri è indicata sul nostro calendario.

http://www.nextprato.it/
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