Un caffè? anche NO!
Un caffè? anche NO!

Un caffè? anche NO!

di Sara, partecipante al Tavolo Attualità GD Prato

 

L’election day del 20 e 21 settembre si avvicina e se due mesi fa il risultato del referendum sembrava già scritto, adesso non è più così. Lo dicono i sondaggi: il 90-10 a favore del Sì è un lontano ricordo, le ultime analisi restituiscono un più equilibrato 70-30 (60-40 in alcune regioni). Se si considera che nessun grande partito ha fatto campagna per il No e che questo è stato difeso solo da formazioni minori (+Europa e altre sigle) e da comitati civici, sembra quasi un miracolo. Ma anche i miracoli, politicamente parlando, hanno una spiegazione e la risalita del No non può che dipendere dal buonsenso delle sue ragioni.

Al di là dei sogni di gloria del Movimento 5 Stelle, che magnificava risparmi esorbitanti, la realtà è molto più grama: stando ai dati dell’Istituto Cottarelli, il risparmio sarebbe di un caffè a testa in un anno. Caffè normale, neanche corretto o cappuccino. Lo 0,007 della spesa pubblica. Una cifra irrisoria, ridicola.

Anche ammettendo che si voglia risparmiare sul costo del Parlamento, il che la dice lunga sulla scarsa stima di cui esso gode, il gioco non vale la candela. Senza dimenticare che il taglio non pare interessare il nutrito, dispendioso e farraginoso sottobosco di funzionari, burocrati, tecnocrati, consulenti, portavoce, autisti, portaborse, portinai ecc.

In secondo luogo, il taglio è drastico e orizzontale. In parole povere si direbbe “’ndo cojo cojo” (dove prendo prendo),  afferro una mannaia e giro su me stesso a occhi chiusi. Senza un’idea né un vero progetto. Concretamente questo comporta che non tutte le regioni escono ugualmente penalizzate dalla riforma. La Valle d’Aosta e il Molise, che già esprimono un numero minimo di senatori, rispettivamente 1 e 2, li mantengono e quindi non sono toccate dal taglio. La Basilicata e l’Umbria, invece, perderebbero più della metà dei loro senatori (-57%  per entrambe), la Toscana il 33%, il Trentino-Alto Adige appena il 14%. Un pot-pourri che rende il dato medio nazionale (-36%) poco indicativo dell’effettivo danno per i territori.

Capitolo efficienza del Parlamento. I sostenitori del Sì affermano che la riforma renderà il Parlamento più rapido ed efficiente. Ma in che modo? La lentezza delle Camere dipende soprattutto dalla difficoltà che partiti diversi hanno nel trovare una quadra, e questo non è un problema di quantità ma di qualità. Per sbloccare la situazione servirebbe rifondare la classe politica, collocando nei ruoli decisionali persone dal forte senso civico, che superino interessi personali o di parte per il bene comune. Questo, naturalmente, nessun taglio lo può fare.

Infine, la questione della rappresentanza. Al netto di paragoni non sempre utili (e non sempre oggettivi) con gli altri Stati europei, è un dato di fatto che con la riforma l’Italia passerebbe da 1 deputato ogni 96mila abitanti a 1 ogni 151mila e avrebbe 1 senatore per oltre 200mila persone. Il problema è intuitivo: se un eletto deve rappresentare un numero sempre crescente di cittadini, non può certo farsi portavoce delle istanze di tutti, ma nemmeno della maggioranza, e questo non farebbe che aumentare la distanza, già siderale, tra eletti ed elettori. Il risultato? Un elettorato sfiduciato che si astiene o vota Sì per rabbia, abbagliato dalle grandi forbici finte con cui Luigi Di Maio tagliava le poltrone ed esaltato dall’illusione di danneggiare una casta di ricconi. In realtà, il taglio non farebbe che rafforzare la casta stessa: con meno candidature a disposizione, i partiti tenderebbero a spingere i fedelissimi del leader di turno. Dissidenti interni e rappresentanti della società civile resterebbero inevitabilmente tagliati fuori. Tutto questo per un caffè all’anno. Può un caffè essere più amaro di così?

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