La scuola deve riaprire (?)
La scuola deve riaprire (?)

La scuola deve riaprire (?)

Di Aksel Fazio

Quasi mezzo anno di covid-19. Intorno al tema della scuola, una discussione che singhiozza: tra soluzioni pirotecniche, passi indietro, e propaganda.

Il punto è: la scuola deve riaprire. Ma come, e perché? Anche se il problema viene percepito come reale e imminente, è evidente che l’importanza della riapertura sia legata soltanto alla garanzia di avere un luogo dove i figli possano stare in modo da lasciare spazio e tempo ai genitori, ma la Scuola non è solo questo. “riaprire la scuola” è un modo assolutamente riduttivo di trattare il tema.

 

Mezzo anno di covid ci ha mostrato che è doveroso ridisegnare i nostri spazi privati e collettivi, le nostre città. Ci ha resi consapevoli della fragilità del nostro sistema sanitario e di welfare. Ci ha imposto riflessioni sui tempi di lavoro e la conciliazione con i tempi di vita. Mesi di quarantena e distanze sociali – no, non mi riferisco al metro e ottanta scarso tra noi, ma alla forbice della disuguaglianza che in questi mesi si è fatta più evidente –  hanno mostrato le lacune di un intero sistema, e reso comune un interrogativo: non c’è davvero nulla di meglio?

 

Ecco, son convinto che questa domanda, che in realtà latita ancora in tutti gli altri ambiti, nella scuola non sia mai stata al centro della discussione neanche per un momento di distrazione. Come se la scuola non fosse, in realtà, equiparabile all’azienda più grande di Italia: col più grande numero di lavoratori, e la metà dei precari statali; con un’utenza di circa 8 milioni di studenti. Ma soprattutto, come se non fosse il principale strumento che il nostro sistema democratico ha per abbattere le disuguaglianze, per investire sull’informazione e sulla coscienza civica dei cittadini e delle cittadine di domani.

Di fronte a questo, mi chiedo come si possa pensare che la scuola non abbia una influenza diretta o indiretta nella vita di quasi tutte le famiglie italiane, e in particolare del nostro futuro. Abbiamo posticipato il problema perché la scuola non produce utili? Perché non si può valutare la bontà di una riforma scolastica se non dopo decenni?

 

Gli studenti e le studentesse hanno sentito la mancanza della scuola durante la quarantena. Ne hanno sentito la mancanza per quello che potrebbe essere il ruolo più sottovalutato della scuola: quello che la rende il collante sociale per eccellenza, che crea ambienti di confronto e stimolo, dove i rapporti personali s’intrecciano e dove ci costruiamo come persone.

 

Quello che non abbiamo fatto è stato interrogarci su cosa servisse loro come membri della società, su ciò che avevano perso senza la scuola, su quali punti di riferimento restituire loro. Infatti, se come alunno ti senti “parcheggiato”, ti comporterai come tale. Se come insegnante ti senti “svalutato”, rischi di svalutarti davvero, perdendo di vista l’obiettivo che persegui in quanto educatore. In tutti i casi, ci si limiterà a portare a termine la giornata, a farla scorrere nel modo più indolore possibile.

 

Quello che abbiamo fatto, invece, è stato solo preoccuparsi di come poter valutare gli studenti e le studentesse nel periodo della DAD, di finire presunti programmi ministeriali che non esistono più. Anche in una situazione emergenziale lo scopo indicato è stato perseguire una tabella di marcia. È stata una presa in giro che è stata troppo facilmente perdonata: perché c’è una pandemia, ci sono altri problemi di cui preoccuparsi.

 

Eppure, la scuola è l’unico momento della propria vita in cui c’è un intero sistema dedicato a te, in cui sei, o dovresti essere, sempre tutelato e protetto.  Questo la scuola non lo fa, non sistematicamente. Con un tasso di dispersione scolastica che si attesta intorno a una media nazionale del 14,5% – e che sfiora il 20% in alcune zone d’Italia – la scuola non riesce a perseguire lo scopo di contrastare le disuguaglianze economiche e sociali, di costituire il primo microcosmo nel quale si diviene comunità. E spesso il mondo politico, come anche un certo mondo della scuola – quello più elitario e meno inclusivo, quello che riconosce il merito senza considerare i diversi punti di partenza, quello meno accogliente- nascondono le proprie responsabilità, scaricando ingiustamente le colpe sugli studenti e le studentesse.

 

Penso che la scuola sia il punto nodale che collega famiglie, cultura, lavoro, percorsi personali di vita e progresso sociale in un quadro di relazioni sociali più ampio di quanto non sia realmente adesso. Penso che potrebbe influenzare queste sfere molto più di quanto ne è influenzata, gestendole in un’ottica di sviluppo umano e sociale.

Tuttavia, dalla politica al personale amministrativo, dagli insegnanti ai dirigenti scolastici ci si incastra in logiche che hanno dimenticato lo scopo: la formazione degli studenti.

Nonostante la letteratura accademica, già assodata, suggerisca di usare metodologie didattiche diverse, la realtà è che la scuola è praticamente la stessa di 100 anni fa.

 

La scuola deve riaprire, ma, ad oggi, ci poniamo solo il quesito di come gestire gli spazi, fattore necessario in questa situazione ma non sufficiente. Ci preoccupiamo delle distanze fisiche e non di quelle sociali che la scuola deve e può abbattere. Non ci sono alternative: lo sforzo culturale che serve per superare una crisi globale può avvenire solo se si pensa un sistema scolastico diverso.

 

Da una parte, occorre ripartire dal dare dignità ai lavoratori della scuola. Occorre investire sulla formazione, sull’organico. Occorre riprogettare gli strumenti didattici, gli spazi e i rapporti esterni della scuola. Dall’altra, risulta urgente fare finalmente quel passaggio ad una didattica inclusiva, partecipata, che superi la lezione frontale, il nozionismo e il principio di omologazione, il sistema valutativo fine a se stesso e non all’accompagnamento dello studente nel proprio percorso, e l’assurda idea della divisione per materie a compartimenti stagni.

 

Penso a una scuola che in ogni momento sia educatrice dei principi di cittadinanza, della consapevolezza dei diritti civili, lavorativi e sociali, di sé e della collettività.

Tutto ciò non solo in orari prestabiliti, in uno spazio fisico isolato, che apre alle 8:00 e chiude per pranzo.

 

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