Socialdemocrazia, un sogno lontano? Ne abbiamo parlato con Gianfranco Pasquino
Socialdemocrazia, un sogno lontano? Ne abbiamo parlato con Gianfranco Pasquino

Socialdemocrazia, un sogno lontano? Ne abbiamo parlato con Gianfranco Pasquino

Si è tenuta ieri sera l’iniziativa “Socialdemocrazie: partiti e sindacati” organizzata dai Giovani Democratici di Prato presso la Sala Ovale della Provincia di Prato. Ospite d’onore il Professor Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienze Politiche all’Università di Bologna.

La conversazione è iniziata con una domanda molto semplice e spontanea: “Che cosa è la socialdemocrazia?”. Il professore ci spiega che la socialdemocrazia può essere definita come un’ideologia, una modalità di governare del secolo scorso, tanto è vero che il XX sec si dice essere stato il secolo socialdemocratico.

Preferiamo però parlare più correttamente di politiche socialdemocratiche, e qui il plurale è doveroso. Perché? È vero che la socialdemocrazia trova le sue radici all’interno del marxismo e la sua forza tra i riformisti (per i quali, si ricorda, è possibile guidare il capitalismo, non annientandolo), ma è vero anche che troviamo una risposta socialdemocratica anche nel pensiero liberale inglese, nel New Deal di Roosvelt e così via. È pertanto più corretto parlare di diverse politiche socialdemocratiche.

Ma non abbiamo ancora definito che cosa sia, comunque, la socialdemocrazia. Dovessimo definirla per antitesi, essa non è una terza via, come molti hanno sostenuto, tra liberalismo e socialismo. Ci ricorda il Professore che sarebbe uno sbaglio considerarla in tal modo. Essa, infatti, sta a sé, è autonoma. E la causa scatenante è proprio la crisi del 1929.

A questo proposito, la Gran Bretagna che è la culla del pensiero liberale-inglese, ospita i primi presupposti per delle politiche socialdemocratiche. Ci troviamo davanti, infatti, a quelli che sono i due contraltari della socialdemocrazia. Anzitutto la politica del welfare, secondo la quale lo Stato promuove e si fa garante di quelli che sono i diritti sociali dei cittadini (parliamo non a caso di Stato benessere). Parallelamente ci troviamo davanti le politiche keynesiane, le quali prevedono l’intervento dello Stato nei processi economici ogni qual volta sia necessario.

Alla luce di questo, mentre il resto d’Europa è lacerato dalla seconda guerra mondiale, i paesi scandinavi si dimostrano i primi laboratori di concretizzazione di questo tipo di politiche, tanto che in Svezia il Partito Socialdemocratico dei Lavoratori Svedesi governerà per ben 44 anni.

È spontaneo chiedersi che cosa è che garantisca questa continuità temporale. A questo proposito,  il professore ci parla del così detto triangolo virtuoso fra partito, sindacato e imprenditori.

Anzitutto il portatore delle idee socialdemocratiche è il Partito che, vinte le elezioni, diventa una forza capace di governare, capace cioè, di tradurre quelle idee nella realtà. Esso attua le sue politiche contrattando con il sindacato prima, e con gli imprenditori successivamente. Non si prescinde mai dal dialogo con il sindacato e quindi dall’idea che si debbano attuare delle politiche sociali. È particolarmente interessante perché quest’ultimo e il Partito non sono la stessa cosa. Il Partito, infatti, ha vocazione nazionale, ma non può comunque prescindere dal sindacato. Allo stesso tempo, non può fare a meno del dialogo con gli imprenditori che fa successivamente, nell’ottica di garantire una stabilità economica.

Quando finisce tutto e perché? La risposta è immediata: finisce quando il triangolo virtuoso non funziona più. Sono cioè due le erosioni sociali che ne sanciscono la conclusione. Da una parte abbiamo la trasformazione della classe operaia: essa è tecnologicamente più avanzata, preferirebbe un aumento salariale ed è disposta a garantire maggiore profitto qualora l’imprenditore lo chiedesse e retribuisse. Dall’altra parte assistiamo ad una differenziazione generazionale: se cioè la classe operaria era interessata al salario e al posto di lavoro, le nuove generazioni (anni ’80-90 del 1900) danno tutto ciò per scontato e inseguono il sogno di una autorealizzazione di sé, della propria persona.

Da ciò, l’idea che ci sia un Partito capace di garantire la libertà e il welfare inizia a sgretolarsi, parallelamente anche il sindacato si divide. Si conclude così il secolo socialdemocratico.

La conferenza è proseguita e molti sono stati gli interventi dal pubblico da cui sono emersi altrettanti spunti di riflessione. Ne diamo qui una traccia. È stato interessante notare come il liberalismo possa essere una base delle politiche socialdemocratiche e come esse garantiscano una democrazia che non miri tanto all’uguaglianza sociale, quanto, all’uguaglianza di opportunità (istruzione, sanità, lavoro) e alla riduzione della disuguaglianza. Abbiamo aggiunto, inoltre, riflessioni sui processi di integrazione in una comunità democratica e quanto sia stato possibile attuare questo tipo di politica passando prima da un processo identitario interno e poi esterno, con l’esempio della Francia e le sue politiche di assimilazione. Abbiamo chiesto se fosse possibile, poi, trovare una nuova quadra, magari con altri soggetti, per far rifunzionare il triangolo virtuoso. Non sono mancati parallelismi con il socialista Bernie Sanders e la complessità della società americana rispetto a quella europea e infine, delle domande sul ruolo dei sindacati ai giorni nostri.

Giovani Democratici Prato

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