Reddito di Base Universale

di Sacha Summa Responsabile Organizzazione GD Prato
e Aksel Fazio Responsabile Lavoro e politiche sociali GD Prato

Il presente articolo rappresenta la sintesi di un momento formativo interno promosso del tavolo lavoro. Un percorso di discussione basato sulla condivisione paritaria. Sono riportate in forma organica i vari interventi, che costituiscono anche la visione del tavolo come collettività.

Fare o essere quello che si vuole, uno stato a cui aspiriamo tutti, il sogno che ci accompagna fin da bambini e che guida le nostre speranzose adolescenze. Un sentimento bellissimo che, scontrandosi giorno dopo giorno con la realtà della nostra società guidata dal mercato, la quale ci obbliga ogni giorno a compromessi, si erode pian piano, riportandoci ai nostri problemi terreni a breve termine. Crescendo impariamo che per vivere in questa società c’è bisogno di un reddito, dato che la nostra sopravvivenza non ci è garantita per diritto. Qua affrontiamo il primo grande compromesso della nostra vita, quello su cui non abbiamo potere decisionale, ovvero la lotteria della nascita. Chi nasce in una famiglia agiata può permettersi il lusso di decidere cosa voler diventare, chi non ha questa fortuna dovrà accontentarsi. Ma, anche avendo avuto fortuna di essere nel primo gruppo, questa libertà non è garantita. La nostra generazione sta affrontando un cambio di paradigma proprio del tardo-capitalismo, dove il lavoro non dà più prospettive di riscatto sociale o di miglioramento. La trappola della povertà (ovvero quando si disincentiva l’azione attiva poiché un piccolo reddito aggiuntivo costituirebbe la perdita dei benefici sociali e altri sostegni economici, e comporterebbe un peggioramento complessivo), evitare i soffitti di vetro (barriere apparentemente invisibili causate dalle discriminazioni), rende vani gli sforzi che un tempo costituivano la base dell’illusione per cui chi è bravo ottiene sempre qualcosa. La favola del fordismo, l’industria dei forti che possono reggere ritmi lavorativi sempre più estremi, chi non ci riesce è giusto che stia relegato agli angoli più bui delle città. Crescendo ancora e superando la propria formazione scolastica e accademica, ci si scontra inevitabilmente con le leggi del mercato, dove tanto è più ampio il settore dove si colloca il tuo desiderio di essere e fare e tanto più hai possibilità di far coincidere la tua passione con il doveroso reddito richiesto per vivere. Per le persone che invece si sono dovute accontentare non potendo permettersi di scegliere chi diventare attraverso un’istruzione, neanche per loro i compromessi sono finiti, dato che il mondo dell’automazione, della competitività al ribasso e della disoccupazione premono incessanti, costringendo un mercato del lavoro ad essere sempre più precario e povero. In entrambi i casi, non ci è purtroppo nuova la frase “o accetti questo o prendo il prossimo”.

Con questa logica si è sempre raccontato il lavoro come attività nobilitante dell’umanità. Ma c’è differenza tra lavoro inteso come prodotto sociale e non come prodotto economico. Nel momento in cui si è liberi dall’obbligo del lavoro salariale, il lavoro diventa un’attività che ci identifica e gratifica in quanto vi ci possiamo riconoscere come enti attivi e membri di una collettività sociale e non più aziendale. Il tempo dedicato non è più imposto o rubato, ma è finalmente nostro, indipendentemente dallo sforzo richiesto. È la base del volontariato. Quello che facciamo serve, e non più solo ad arricchire una manciata di individui. Chi teme che di annoiarsi in una società senza obbligo del lavoro, mostra pienamente il significato di fare egemonia culturale come lo definì Gramsci: “un gruppo sociale che è al potere e fa pensare anche gli altri come lui”.

Ma natura propria del capitalismo, sistema attualmente egemonico, è quella di generare monopoli economici tramite l’accumulo. È un’opportunità di schiacciare e inglobare le altre realtà concorrenti ma inizialmente svantaggiate, non di favorirne lo sviluppo.

La risposta può essere il reddito universale o di base?

L’UBI ovvero il reddito erogato per diritto e senza condizioni. Un sistema che garantisce una base economica, la sopravvivenza garantitaci costituzionalmente e la libertà, in ogni caso, di scegliere chi essere e cosa fare delle proprie vite. Esso sarebbe sicuramente un grande passo avanti socio-culturale, trasformando il lavoro per vivere nel lavoro per passione, creando sviluppo e inclusione delle persone ai margini della società attuale, trasformando l’automazione da tecnologia che priva di reddito a tecnologia che garantisce la sopravvivenza, aumentando il potere contrattuale dei lavoratori consentendogli di dire NO al ricatto di chi offre lavori a condizione inique e, si spera, spezzando questa circolo vizioso di ribassi che a livello mondiale impoverisce, anno dopo anno, il benessere dei popoli di ogni nazione.

Questa proposta, spesso considerata estremista persino dai mondi della sinistra, è tutt’altro che infattibile. Non sono pochi i nodi da sciogliere su di essa, ma non richiedono altro che la volontà politica di farlo, ridisegnando in modo sostanziale il concetto di proprietà, oggi basato sull’accumulo di ricchezza, materiale o finanziaria. Per abolire la povertà estrema, dobbiamo abolire la ricchezza estrema. Come sostenere un simile spesa richiede uno stravolgimento del sistema non solo fiscale. Trasformare una struttura piramidale in una realmente redistributiva per sostenere una politica attiva che avrebbe un immenso impatto sociale. È ormai letteratura accademica che i soldi distribuiti alle fragilità e marginalità sociali, non vengono “sperperati”. Tendono ad essere più facilmente reimmessi nel circuito economico in beni di prima necessità, come cibo vestiario o affitti. Responsabilizza e non impigrisce chi ha sempre vissuto di stenti. Sarebbe quindi uno strumento molto efficiente, con un bilancio molto migliore rispetto a sistemi assistenzialistici e non integrati.  Ma c’è da fare un appunto, il modo in cui questi soldi vengono erogati, le modalità con cui raggiungono il nucleo familiare, è determinante. Ogni forma di supporto e assistenza sociale si scontra inevitabilmente con condizioni al contorno culturali che non possono essere sottovalutate. Sicuramente non si può rinunciare al welfare basato su servizi, formazione e sanità, elemento imprescindibile della garanzia alla sopravvivenza e tutela della collettività.

Il grande scoglio che trova questa proposta è uno solo, la capacità culturale di poter accettare un nuovo modello di società, capacità che deve essere presente a livello globale e non di singola nazione. La volatilità dei capitali, la sempre maggiore difficoltà a tassare i grandi redditi multinazionali e in rete sono sfide che possono essere superate solamente con un approccio mondiale alla questione. L’automazione, inoltre, inevitabile progresso e attualmente impoveritore dell’umanità, avanza ogni giorno di più. Già ora sta cancellando centinaia di migliaia di posti di lavoro, e le risposte, come diminuire il monte ore lavorativo per favorire una piena occupazione, sono ostacolate. Si può pensare l’UBI in un contesto locale, senza accordi internazionali efficaci? Quale dovrebbe essere il valore dell’UBI? Come potrebbe tenere conto delle discrepanze economiche anche locali? Come andrebbe regolato la tassazione per evitare le trappole di povertà, problema già presente con le attuali forme di sostegno, ma senza favorire la permanenza delle disuguaglianze con chi già ha rendite altissime? Questi e molti altri problemi legati ad essi non possono essere a lungo rimandati nella loro risoluzione.

Amartya Sen, economista insignito del premio Nobel per l’economia, suggerì di eliminare il PIL come indicatore di sviluppo, proponendo delle alternative che tenessero conto del benessere delle persone in una sfera più ampia del reddito, basata sui diritti e l’accessibilità ai servizi. L’indicazione è chiara, una società non può misurare il suo sviluppo su quanto riesce a produrre, bensì sulla coesione e l’inclusione sociale, si misura su quanto è ridotta la forbice delle disuguaglianze, quanto è facile per tutti accedere ai diritti e i servizi fondamentali, quanto per ogni individuo programmare il proprio futuro sulla base delle proprie inclinazioni.

Dobbiamo promuovere una discussione interna alla sinistra tutta affinché rifletta seriamente su welfare e Ubi . È necessario per gestire lo sviluppo anziché subirlo e sprofondare in un decadimento socioculturale senza precedenti. Progettare una società diversa, con obbiettivi diversi. È essenziale rompere al più presto una cultura laburista che vincola l’uomo ad un produttivismo fine a all’arricchimento della borghesia, che impigrisce la persona ingabbiandola nel solo suo lavoro, senza darle la possibilità di essere qualcosa al di fuori di esso.

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