Nel nome della libertà, ma quale libertà?

Di Maria Rita Paratore, coordinatrice responsabili tematicə GD Prato

Questo 27 gennaio, Giorno della memoria, a Cogoleto tre consiglieri comunali della destra votano durante la seduta di un Consiglio Comunale facendo ripetutamente il saluto romano. A Biella un consigliere della Lega scrive un post su Facebook in cui esplicita la sua mancata solidarietà alle vittime dell’Olocausto: il sindaco della Lega della città ne chiede le dimissioni, ma lo giustifica affermando di essere «dispiaciuto per il consigliere Mino, credo nella sua buona fede e che si sia trattata solo di una ingenuità».
A volte viene chiamata ingenuità, a volte difesa della libertà di espressione.

Si può pensare, ad esempio, alla Commissione contro il razzismo e l’antisemitismo proposta un paio d’anni fa dalla senatrice Liliana Segre: 98 esponenti del centrodestra si sono astenuti e Matteo Salvini ribadì che «Non vorremmo che qualcuno a sinistra spacciasse per razzismo quella che per noi è una convinzione, un diritto, ovvero sia il prima gli italiani». Alla proposta di Legge Zan, che condanna come reati gli episodi di omolesbobitransfobia, la destra ha parlato di legge bavaglio, contraria alla libertà di espressione. Recentemente di fronte alla chiusura del profilo di Donald Trump da parte di Twitter, Susanna Ceccardi, ex candidata alla presidenza della Regione Toscana, ha scritto che se le quattro persone morte negli USA fossero stati di sinistra «sarebbero stati già dei martiri contro lo Stato che réprime la libertà di pensiero». Anche Giorgio Silli, attualmente deputato pratese del centrodestra, sostiene che «Quello che è successo fra Facebook e Trump [..] crea un precedente non solo imbarazzante ma pericolosissimo, per il quale sarebbero i social a decidere se chi è democraticamente eletto può o non può comportarsi in un certo modo (per quanto deprecabile possa essere)».
Tutti questi esponenti hanno, a loro modo s’intende, condannato la violenza, ma condannare la violenza è sufficiente se la si difende dietro l’idea della libertà di espressione? Di quale libertà stanno parlando, poi?

Troppo spesso ci hanno insegnato a romanticizzare la libertà senza osservare fino in fondo lo spettro problematico di questa categoria. Dietro all’interpretazione della libertà, invece, ci sono interi programmi politici di cui è necessario riappropriarsi per dare risposte alle due maggiori crisi sociali che hanno colpito la tarda modernità: da una parte la crisi economica del 2008 e dall’altra quella imminente post-pandemica.
Una delle filosofe che ci può aiutare a inquadrare tale problematicità forse è proprio Hannah Arendt. Spesso Arendt riprende nei suoi scritti la dicotomia tra libertà privata, che si manifesta nell’ambito sociale, e libertà politica. Al di là delle riflessioni più approfondite che sono appannaggio di specialistə, è interessante osservare come in Sulla violenza, l’autrice sottolinei che è nell’ambito degli interessi privati che c’è mancanza di libertà. In questo ambito si è costretti, cioè, a vivere secondo la costrizione delle necessità vitali.
Scrive infatti:

«Gli interessi personali, quando si richiede di dare la precedenza al “vero” interesse – come quello per il mondo, distinto da quello per il sé – risponderanno sempre “vicina è la mia camicia, ma più vicina è la mia pelle” […]. Aspettarsi dalle persone che non hanno una minima nozione di cosa sia la res publica, la cosa pubblica, che si comportino in modo non violento e discutano razionalmente rispetto a questioni di interesse non è né realistico né ragionevole».

Per l’autrice è nel potere politico, invece, che si manifesta il più alto grado di libertà. Scrive in Pensieri sulla politica e sulla rivoluzione che “felicità pubblica” significa che «quando l’uomo prende parte alla vita pubblica egli permette a sé stesso di accedere a una dimensione di esperienza umana che altrimenti gli rimarrebbe negata e che in qualche modo costituisce una parte di completa “felicità”».

Penso che al centro di queste parole ci stiano due visioni di libertà.
Da una parte la libertà privata – tipica del paradigma della sovranità – che è la manifestazione della libera espressione di un sé che si pensa come presociale, libero padrone della propria vita e che, contro ogni ostacolo, si autodetermina. Potremmo a ragione parlare della tipica libertà liberale secondo cui “la mia libertà finisce dove comincia la tua”.
È ancora una libertà recintata alla propria egoità, dove la politica ha il solo ruolo ancillare di sostenere e proteggere gli interessi privati e la libertà di azione individuale – proprio secondo il principio della prossimità alla propria pelle, riprendendo Arendt.
Dall’altra, invece, siamo davanti a una libertà pubblica e politica. Questa è una libertà che si esprime nell’agire di concerto. Si afferma, cioè, una soggettività non autonoma, ma dipendente dall’altrə. È una libertà che ammette – per usare le parole di un docente di filosofia politica – che «ogni relazione è ammissione di debolezza, esposizione di carne viva a una possibile ferita».
È una libertà che ha inizio – non che finisce – quando comincia quella altrui: solo quando l’altrə è davvero libero, la nostra libertà può iniziare.
È il passaggio da una libertà caratterizzata da un agire individuale a una libertà di agire di concerto quello che dovrebbe interessare il cambio di paradigma che vogliamo vedere nel mondo e di cui, io credo, la sinistra dovrebbe farsi carico.

Per questi motivi fatico a capire di che tipo di libertà questi politici stanno parlando. O meglio, credo stiano parlando di una libertà che appartiene a una cultura liberista che ha raggiunto la sua massima espressione teorica in una Margaret Thatcher che afferma al congresso del Partito Conservatore inglese che «non esiste una società, ma esistono solo individui».
Ma non c’è libertà di azione e di espressione in un agire che non ammette una predisposizione di cura e di tutela dell’altrə e che mina le fondamenta della democrazia.

Infine, credo che aprire un dibattito culturale e politico sulla libertà, sull’uguaglianza e sull’etica della cura debba essere onere del Partito Democratica in Italia e in generale fulcro dei partiti di sinistra in Europa e nel mondo.
Insomma, pensare la libertà a sinistra significa pensare anche che non ci sia libertà senza rimozione delle disuguaglianze economiche e sociali, senza che ci sia una predisposizione alla cura e alla tutela dell’altrə.
Il rischio è che la tarda modernità non esca dal pericolo che Hartmut Rosa ha evidenziato nel suo Accelerazione e alienazione, cioè che «non sia di fatto più possibile alcun cambiamento reale» e che si sia costrettə fare i conti con un sistema di inerzia culturale e sociale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

http://www.nextprato.it/
X