Lo Stato liberista non è femminista
Lo Stato liberista non è femminista

Lo Stato liberista non è femminista

di Ilaria Salomone, Tavolo Donne e lavoro GD Prato

 

Molto spesso, troppo spesso, diritti civili e diritti sociali vengono trattati separatamente o, quando nominati nello stesso momento, vengono posizionati su piani contrapposti e antagonisti. Tuttavia, questa distinzione aggettivale non deve nascondere l’estrema interconnessione che c’è tra i diritti.

Il Partito Democratico, da anni promotore ormai di una deregolamentazione del lavoro, si dichiara femminista, ed è stato accusato di aver tralasciato i diritti sociali per dedicarsi esclusivamente ai diritti civili. Ebbene, ciò che sfugge sia al partito sia a chi contrappone le due tipologie di diritti, è che trascurare i diritti sociali significa negligere anche quelli civili. Per quanto riguarda le donne, ma il ragionamento potrebbe essere applicato anche agli altri gruppi emarginati, questo avviene perché un sistema economico liberista, che è andato cioè incontro a diversi tipi di deregolamentazione, non favorisce l’indipendenza materiale femminile.

 

Alcune studiose hanno sostenuto che le economie di libero mercato concedano maggiori opportunità professionali alle donne rispetto a quelle chiamate “di mercato coordinato” (si tratta della distinzione tra liberal market economies e coordinated market economies all’interno della teoria Varieties of Capitalism). In merito a quanto sostiene, per esempio, Margarita Esté Vez-Abe in un articolo del 2009, la maggiore protezione dell’impiego genera un effetto negativo sull’occupazione femminile, che nei paesi Socialdemocratici viene compensato dalla creazione di posti di lavoro pubblici.

Il fatto che il modello sociale del male bread winner, ovvero in cui l’uomo ha accesso a un lavoro come dipendente a tempo indeterminato mentre la donna si occupa principalmente delle attività domestiche (in assenza di un welfare statale dedicato all’accudimento dei bambini e degli anziani) non sia ideale per la parità di genere è stato riconosciuto anche da studiose e studiosi meno favorevoli alle economie di libero mercato. Tuttavia, come sottolineano questi ultimi, ciò non deve portare a sottovalutare dei punti fondamentali:

 

  • Nelle economie in cui il posto di lavoro è più protetto, si sopravvaluta il ruolo del datore di lavoro nel decidere che l’occupazione duratura vada riservata a un uomo per paura di instabilità lavorativa della donna dovuta a possibili periodi di maternità. Infatti, il datore di lavoro non è l’unico responsabile dell’esclusione della forza lavoro femminile dai contratti sicuri. Di questo processo sono difatti complici anche i sindacati, che selezionano il target della propria azione di tutela (Rubery, 2009). Questo significa che la minore protezione lavorativa della popolazione femminile all’interno di economie più controllate non è frutto di un determinismo economico, ma di processi sociali che possono essere soggetti a cambiamenti. Di conseguenza, protezione non significa necessariamente esclusione della donna dalla forza lavoro.

 

  • Nelle economie di libero mercato, che promuovono tagli alla spesa pubblica ed esternalizzazione ai privati dei servizi (istruzione, sanità, accudimento), la partecipazione della popolazione femminile ad attività produttive di qualità è una questione di classe: chi dispone delle risorse per fare ricorso al privato può investire nel proprio percorso professionale (Toffanin, 2010). Al contrario, chi non è nella posizione economica di poter utilizzare servizi privati di cura (termine usato in riferimento all’accudimento di bambini e anziani), viene utilizzata nel mercato come fonte di lavoro flessibile, precario, e subordinato al ruolo domestico che la società le ha conferito. Come afferma Angela Davis “La donna può porre solo un piede nel mondo delle opportunità come lavoratrice industriale. L’altro piede è ancora bloccato a casa. La madre lavoratrice trova che l’impiego fuori casa sia un lavoro duro e tedioso, a malapena un passo verso l’uguaglianza” (1971). Inoltre, coloro che appaltano il lavoro di cura al privato, lo fanno in realtà dipendendo da altre donne impiegate a basso costo, come babysitter o caregivers (Rubery, 2009).

 

  • I dati mostrano chiaramente che la flessibilizzazione del lavoro ha principalmente come oggetto le donne. Secondo Toffanin, nel 2010 le donne erano il 78,1% dei lavoratori part-time. Se si guarda ai dati successivi a tale anno nella banca dati OECD, si nota un aumento della percentuale di lavoratori part-time uomini. Ciononostante, il gap della percentuale dei part-time rispetto ai lavoratori totali dello stesso sesso è aumentato di 0,3 punti percentuali, passando dai 24,5 punti percentuali del 2010 ai 24,8 del 2020. Questo significa che nel 2020 la percentuale di part-time del totale delle donne che lavorano è 24,8 punti percentuali in più rispetto agli uomini. Inoltre, per quanto riguarda il gap dei part-time involontari rispetto al totale dei lavoratori dello stesso sesso, questo è aumentato in misura maggiore, precisamente di 3,2 punti percentuali (passando da un gap di 10,7 punti a uno di 13,9). Quindi, non solo l’incidenza dei part-time è aumentata leggermente di più per le donne rispetto agli uomini, ma ancora di più è aumentata “l’imposizione” da parte del mercato del lavoro di tale condizione, che si manifesta nell’occupazione part-time per l’impossibilità di trovare un lavoro a tempo pieno (definizione di part-time involontario per OECD).

 

  • Infine, se è pur vero che in passato, e ancora oggi, gli organi di tutela dei lavoratori non sono stati rappresentativi delle donne, è anche vero che l’attuale frammentazione della forza lavorativa e flessibilità non concedono alcuna protezione. Qualora aumentasse infatti il potere delle donne all’interno degli strumenti di rappresentanza dei lavoratori, le lavoratrici non potrebbero farvi ricorso, in quanto la maggioranza di esse ha contratti precari e l’attività sindacale rischia di comportare l’esaurimento del contratto al successivo rinnovo.

 

Per concludere, la flessibilizzazione del mercato del lavoro avrà anche comportato un aumento dell’occupazione femminile, ma questa è per lo più subordinata al ruolo domestico imposto socialmente e oggetto di sfruttamento per l’abbassamento dei costi e delle tutele. Questa tipologia di occupazione non rende quindi la donna indipendente materialmente, come affermano invece le sostenitrici del femminismo liberista. È per questo che la questione femminista non può essere esclusa dalla sfera dei diritti sociali, in quanto senza politiche adeguate che mirino al miglioramento materiale non ci sarà mai parità. Sostenere azioni culturali non è quindi sufficiente, il femminismo va considerato in un’ottica intersezionale per classe e nazionalità, in modo che non faccia gli interessi di un gruppo privilegiato. Aumentare i servizi pubblici per l’accudimento di bambini e per la cura di adulti non autosufficienti e contrastare la deregolamentazione del mercato del lavoro sono misure che un partito o qualsiasi forza politica si dichiari femminista non può ignorare. Il punto di arrivo non deve essere tuttavia quello interamente funzionale alla produzione capitalista. Se sotto il capitalismo coordinato la donna serviva come casalinga per garantire una forza lavoro in salute e capace di lavorare tante ore per tutta la vita e sotto il capitalismo liberale essa serve a rispondere alle esigenze della produzione flessibile, il nuovo modello non deve essere quello di uno Stato che permetta a donne e uomini di lavorare di più per produrre di più. Il sistema non deve essere uno in cui non vi sia equilibrio tra lavoro e vita privata, né tantomeno che sottovaluti il valore sociale del lavoro riproduttivo. Infatti, in un sistema economico capitalista, in cui l’autonomia economica per chi non dispone di rendite passa necessariamente attraverso il lavoro salariato, l’emancipazione materiale della donna si esprime attraverso la sua partecipazione alla forza lavoro, ma questo non deve essere l’obiettivo ultimo. Il fine a lungo termine della trasformazione deve essere una struttura sociale in cui il lavoro riproduttivo, da chiunque esso venga svolto, venga riconosciuto come produttivo e reso degno, e in cui lo scopo dell’organizzazione sociale non sia la produzione ma il benessere sociale stesso.

 

Bibliografia:

Davis, A. (1971) “Women and Capitalism Dialectics of oppression and liberation”, in James, J. (2000), The Black Feminist Reader, 146-182, Blackwell Publishers.

Estévez-Abe, M. (2009) Gender, Inequality, and Capitalism: The “Varieties of Capitalism” and Women, 1-10, Oxford University Press

OECD (s.d), Dataset about involuntary part-time

Rubery, J. (2009) “How Gendering the Varieties of Capitalism Requires a Wider Lens”, Social Politics: International Studies in Gender, State & Society, Volume 16, Issue 2, Pages 192–203, https://doi.org/10.1093/sp/jxp012

Toffanin, T. (2010) “The Role of Neoliberal Capitalism in Reproducing Gender Inequality in Italy”, Journal of Contemporary European Studies, Volume 19, Issue 3, Pages 379-392, DOI:10.1080/14782804.2011.610607

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