Linguaggio e rappresentanza: una questione politica
Linguaggio e rappresentanza: una questione politica

Linguaggio e rappresentanza: una questione politica

Riflessioni dopo l’incontro con Cecilia Robustelli organizzato dai Giovani Democratici di Prato, la Conferenza delle Donne Democratiche e Intersezioni Prato.

Di Bianca Nesi, portavoce di Intersezioni Prato.

È possibile riflettere sul ruolo della donna nella società a partire dal linguaggio? Perché sentiamo il bisogno di riflettere sul ruolo della donna nella società? Con questi due interrogativi, la linguista Cecilia Robustelli ha aperto la riflessione di ieri sera e per rispondere siamo partiti da molto lontano, dal XVIII secolo, il periodo delle rivoluzioni borghesi nel mondo occidentale. “Che cos’è il terzo stato?” è il titolo del pamphlet di Emmanuel Joseph Sieyès che nel 1789 ha guidato la Rivoluzione Francese, spingendo la riflessione sui privilegi di nascita e di ceto che permettevano l’accesso alla gestione della cosa pubblica solo a pochi ed escludevano tutti gli altri. Tra i privilegi elencati, però, uno mancava, uno così grande da diventare invisibile: il genere. È Olympe de Gouges, nel 1791, a scrivere il rivoluzionario “Dichiarazione universale dei diritti delle donne”, nel pieno della Rivoluzione, in cui chiedeva di estendere i diritti politici dell’uomo anche alle donne. De Gouges verrà ghigliottinata a Parigi nel 1793. Il periodo delle rivoluzioni borghesi sancisce definitivamente l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica.

Comincia a questo punto la lotta delle donne per il raggiungimento degli stessi diritti dei maschi. Prima con le suffragette, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 in diversi paesi del mondo, dall’Inghilterra alla Nuova Zelanda, poi nella seconda metà del ‘900, negli anni ’60-‘70, in quello che viene definito come “femminismo di seconda ondata”: le donne ancora lottano per occupare spazi da cui sono state tenute lontane per secoli, per avere posizioni di prestigio di sola prerogativa maschile. Lottano per essere uguali agli uomini, anche abdicando volentieri alla loro specificità di genere e addirittura negandola. Chi vorrebbe essere “come una donna” quando la società vede l’essere donna come sinonimo di debolezza e sostanziale inadeguatezza a ricoprire ruoli di potere e responsabilità?

Ancora oggi è necessario lottare per cambiare il ruolo delle donne nella società. Il lavoro che dobbiamo fare è prevalentemente culturale e questo significa anche cambiare il linguaggio con cui ci esprimiamo: perché si decide di utilizzare il maschile quando si parla del lavoro di una donna in posizione di prestigio? Perché decidiamo di utilizzare “sindaco” invece di “sindaca”, o “ministro” invece di “ministra” anche se è una donna a ricoprire quel ruolo?  Nascondersi dietro pretestuose e ormai illegittime scuse, come quella di cacofonia, o della (erroneamente) sbandierata neutralità del genere grammaticale maschile non ha senso: questa presunta regola grammaticale sembra essere valida solo quando il nome da declinare al femminile è “rettore”, “segretario”, “notaio” ma non quando dobbiamo declinare “maestro”, “operaio”, “infermiere”). E c’è anche un’altra scusa, forse la peggiore, il benaltrismo: quante volte sentiamo dire “ci sono ben altri problemi che non discutere del femminile o del maschile, tanto di fatto, è uguale!”.

La pretesa della neutralità è molto grave da un punto di vista sociale e politico, oltre che grammaticale. Grammaticalmente parlando, l’italiano non possiede il neutro e il genere grammaticale maschile non assolve alle sue funzioni, perché – in riferimento agli esseri umani – indica solo quelli maschili. Dal punto di vista sociale e politico, decidere di far scomparire le soggettività femminili nel maschile generalizzato in ruoli di potere significa deliberatamente negare la presenza femminile e assumere un atteggiamento di aperta ostilità al progresso sociale delle donne: con l’utilizzo delle giuste desinenze non solo rispettiamo una regola grammaticale, ma anche e soprattutto la presenza delle donne in ruoli a loro preclusi fino a poche decine di anni fa. Continuare ad associare il prestigio alla declinazione al maschile è la spia di quanto sessismo abbiamo interiorizzato senza accorgercene.

Le istituzioni politiche sanno bene che la società in cui siamo immersi è piena di stereotipi culturali che relegano la donna al di fuori della gestione del potere e si sono mosse negli anni per costruire una società non gerarchica in questo senso, di cui possiamo ripercorre le tappe insieme:

– Risoluzione del Parlamento europeo del 12 marzo 2013 sull’eliminazione degli stereotipi di genere nell’Unione europea: il Parlamento Europeo riconosce il linguaggio come strumento di discriminazione linguistica e quindi sociale. Fino a questo momento, sebbene il dibattito sul tema, sia a livello europeo che a livello italiano fosse presente fin dagli anni ‘80 grazie al rivoluzionario testo “Il sessismo nella lingua italiana” di Alma Sabatini (1986), rimaneva ancora senza riconoscimento politico.

– 1 agosto 2014, ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ovvero la Convenzione di Istanbul: si ribadisce l’importanza di un uso consapevole e non discriminatorio della lingua. Si parla inoltre di violenza psicologica ai danni delle donne, non solo fisica. La violenza psicologica si promuove a fatti e a parole, per questo il linguaggio ha una centralità così forte.

– 2015, Piano straordinario contro la Violenza di Genere: prevedeva anche l’azione di un Gruppo di linguisti esperti di linguaggio di genere presso il Dipartimento delle PO alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Tutti i documenti prodotti dal gruppo non hanno avuto alcuna diffusione.

Quando si parla di linguaggio, non si parla solo della declinazione al femminile delle parole, ma di narrazione e comunicazione pubblica in cui il sessismo è così radicato da, di nuovo, essere completamente invisibile. Insieme alla professoressa, siamo passate ad analizzare la comunicazione di giornali e televisione e abbiamo riscontrato tre tipi diversi di sessismo: 1) sessismo sguaiato: senza nessuna remora, si dipingono le donne come oggetti sessuali, passive allo sguardo maschile e all’azione degli uomini; 2) sessismo benevolo: le donne sono dipinte come inferiori e bisognose di protezione, ci si riferisce a loro, indipendentemente dal loro ruolo, con aggettivi che rimandano alla leziosità o alla frivolezza (Virginia raggi è una “bambolina” secondo Vincenzo De Luca) e senza rendersi spesso nemmeno conto della portata sessista delle parole che si usano; 3) sessismo nascosto: ci si rifiuta di utilizzare la parola “sindaca” perché considerata sbagliata, troppo radicale o connotata politicamente. È il tipo di idea sessista che anche le donne hanno assorbito.

Tutti questi esempi ci restituiscono sempre una sola immagine di donna, che è l’immagine a cui anche il mondo politico decide di esporre bambini e bambine: la donna è un oggetto sessuale, possibilmente passivo e accondiscendente, è stupida, debole, bisognosa della protezione o dell’approvazione del maschio, tenera, indifesa, frivola, isterica. È sostanzialmente inadatta alla gestione della cosa pubblica, inadatta a un ruolo politico di potere.

Alla presentazione di Robustelli sono seguiti numerosi interventi; tra questi da sottolineare le parole di Emanuele Bresci, del Comitato Gay Lesbiche Bisessuali Trans+, che ha riportato la sua esperienza lavorativa relativamente all’utilizzo del linguaggio di genere nella scuola primaria e alla diffusione delle buone pratiche, e il pensiero condiviso da Tania Cintelli, portavoce regionale della Conferenza delle Donne Democratiche, che ha sottolineato l’importanza di portare avanti una battaglia politica sul tema anche a livello regionale.

La serata ci ha lasciato un messaggio molto chiaro: le nostre parole hanno un peso nella costruzione dell’immaginario di chi ci ascolta e anche del nostro. Cambiare modo di parlare e di comunicare significa cambiare il nostro modo di pensare il mondo e la società. Come Giovanile, pensiamo che un partito di sinistra non possa non avere tra i suoi obiettivi politici il conseguimento delle pari opportunità di tutte e di tutti. Grazie a quest’incontro, siamo ancora più consapevoli che cambiare il nostro linguaggio è fondamentale per poter costruire un futuro equo e proseguiremo la nostra battaglia per un utilizzo del linguaggio di genere e per una rappresentazione della donna scevra da attributi sessisti o paternalisti all’interno del Partito Democratico. Ignorare questa richiesta politica e sociale significa voltare le spalle alle bambine e alle donne del futuro e negare il valore della loro presenza nello spazio pubblico.

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