Lettere dalla quarantena: una riflessione sull’hate speech
Lettere dalla quarantena: una riflessione sull’hate speech

Lettere dalla quarantena: una riflessione sull’hate speech

Di Michele Arcidiacono 

Nell’ambito dei nuovi media e di Internet, è espressione di odio e incitamento all’odio di tipo razzista, tramite discorsi, slogan e insulti violenti, rivolti contro individui, specialmente se noti o famosi, o intere fasce di popolazione (stranieri e immigrati, donne, persone di colore, omosessuali, credenti di altre religioni, disabili, eccetera. 

Questa sopra riportata è la definizione che dà il dizionario Treccani per quanto riguarda i “discorsi che incitano all’odio”. Non possiamo negarlo, il problema che si presenta è ineludibile, in Italia, come altrove; tra adolescenti, ma non solo. In un momento di quarantena, come quella che stiamo vivendo in questi giorni, il mezzo rappresentato dai vari social media (Facebook, Instagram, Twitter), che fino a poco tempo fa era solo parallelo ai rapporti reali e personali, adesso si è rivelato l’unico strumento per poter comunicare in tempi più o meno rapidi verso l’esterno.

Ecco quindi che assistiamo a una fase in cui fenomeni che già prima esistevano e avevano bisogno di risposte dalla politica diventano centrali, innegabili, sotto gli occhi di tutti.

Dell’hate speech non è da condannare il mezzo, ma il contenuto che attraverso la forza centrifuga, in un rapporto di uno a tanti, arriva a ledere la dignità e la sensibilità potenzialmente di qualsiasi individuo o di un’intera categoria. Molto spesso i fautori di questi atteggiamenti meschini e vigliacchi, pensano di farla franca e non incappare nelle logiche conseguenze che le loro azioni provocano: dietro ad un profilo anche fittizio, la responsabilità individuale permane e come dicevano i latini “verba volant, scripta manent” in modo che sia considerato un reato vero e proprio e quindi come tale perseguibile ai sensi della legge. È necessario punire chi, credendosi al sicuro dietro uno schermo, pensa di poter insultare, diffamare o screditare chiunque scelga come bersaglio. È altrettanto necessario far comprendere a questi soggetti che il loro comportamento non li accosta all’espressione del libero pensiero, ma va nella direzione assolutamente opposta. I motivi scatenanti dell’odio sono vari e molteplici, sovente sono anche i più futili: la frustrazione per la propria condizione, il senso d’impotenza e d’inadeguatezza, la mancanza di fiducia e di empatia, bieco cinismo o la mancanza di prospettive, una cattiva informazione e i pregiudizi sedimentati. In una società che si definisce civile, la cura di un discorso che si definisca altrettanto, è una priorità che riguarda tutti, nessuno escluso.

Constatiamo ripetutamente episodi d’odio che si dicono sporadici, ma che in realtà trovano terreno fertile nell’indifferenza o peggio ancora nella complicità. Il clima da tifo non aiuta ad esprimere la propria posizione in maniera corretta e pacata: spesso chi ricorre all’hate speech lo fa per farsi notare e per riuscire ad aggregare un gruppo di persone contrarie ad una certa posizione; si reitera costantemente il binomio nocivo “noi-loro” sul quale si fonda anche tanta propaganda nociva che fa dell’incitamento all’odio mirato uno strumento politico.

Perciò penso che a maggior ragione debba essere valido il concetto di pensare dieci secondi prima di parlare, e direi di aspettarne anche trenta prima di scrivere qualsiasi cosa. Come già detto non lasciamo che uno spazio con moltissime potenzialità come Internet diventi una fogna nella quale riversare i peggiori istinti (che pure come dimostrato ci sono ancora, nonostante l’emergenza virus), ma rendiamolo a tutti gli effetti un luogo regolamentato e sicuro per tutti gli utenti.

Desidero esprimere la mia piena solidarietà a chiunque sia stato vittima di discorsi discriminanti e d’odio: il problema non siete certo voi, i discorsi che avete subito qualificano soltanto chi li pronuncia o li digita.

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