Perché noi giovani non possiamo permetterci il precariato
Perché noi giovani non possiamo permetterci il precariato

Perché noi giovani non possiamo permetterci il precariato

di Ilaria Salomone, Tavolo lavoro GD Prato

Questo articolo è per tutti e tutte coloro che pensano che sia giusto l’attuale trattamento delle persone giovani sul mercato del lavoro; per coloro che credono che le parole Stato, Welfare e Regolamentazione siano delle bestemmie; ma soprattutto, per tutti i e le giovani a cui è stato detto che non esistono alternative e che con il loro duro lavoro arriveranno al successo, facendogli credere che chi non ce la fa è perché non ha fatto abbastanza.

 

Manca ormai poco al 1 maggio e quest’anno, come l’anno scorso, sarà un momento ancora più importante poiché la crisi pandemica ha messo in evidenza quanto sia necessario ripensare il lavoro nel nostro paese così come il ruolo dello Stato in determinati ambiti che non possono essere appaltati al privato. Le principali vittime di questo sistema che già da anni ha dato prova di non funzionare sono stati i giovani e le donne, entrambi relegati a contratti precari perché “in Italia bisogna fare la gavetta” e a causa di uno scarso sistema di welfare che lascia sulle spalle femminili il compito di accudire bambini e anziani. Il trattamento riservato a giovani e donne durante questa pandemia è stato ricordato da molti discorsi, i quali non si devono perdere in un’indignazione momentanea ma devono pretendere il cambiamento. Il tema è diventato così discusso che persino il presidente di Confindustria ha sentito la necessità di nominarlo parlando delle misure da intraprendere per l’Italia di domani. Peccato che secondo lui la soluzione a un problema creato dalla precarietà sia un’ulteriore flessibilità. Eliminare le causali dei contratti a tempo determinato, fare sconti sui contributi. Non si sente parlare di altro quando si discute di quali misure dovrebbero favorire l’occupazione delle fasce più deboli. Eppure, di motivi per rifiutare questo sistema che ci tiene perennemente in prova ne abbiamo diversi.

La flessibilizzazione del mondo del lavoro è cominciata negli anni ’80 ma ha assunto un ritmo notevole solo a partire dal Pacchetto Treu del 1997, seguito dalla legge Biagi del 2003, dal decreto Poletti del 2014 e dal Jobs Act del 2015. Successivamente nel 2018 è stato approvato il cosiddetto Decreto Dignità, che ha regolamentato in misura maggiore i contratti a tempo determinato e la questione del licenziamento illegittimo, senza però mettere in discussione la natura del sistema. Questa carrellata di leggi serve a dimostrare che in Italia non c’è stata distinzione tra destra e sinistra nei confronti dei nuovi entranti nel mondo del lavoro e questo è estremamente grave. Ma ancora più grave è il fatto che queste misure si siano accumulate dopo la riforma del sistema pensionistico nel 1995.

 

La riforma del sistema pensionistico del 1995

La riforma Dini ha infatti sancito il passaggio da un sistema pensionistico retributivo a un sistema contributivo. Questo significa che se prima la somma delle pensioni veniva calcolata tramite un tasso di sostituzione applicato alla media del salario (o del reddito nel caso dei lavoratori autonomi) degli ultimi anni di carriera o di tutta la vita (a seconda del periodo di contribuzione prima del 1992), dopo la riforma la pensione sarà calcolata in base all’ammontare monetario dei contributi versati. Inoltre, tale ammontare sarà rivalutato sulla base dell’età di pensionamento e della variazione nominale del PIL.

Concretamente parlando, poniamo il caso che un lavoratore nel precedente sistema guadagnasse l’equivalente di 2500 euro lordi mensili negli ultimi 5 anni di carriera e che abbia versato 40 anni di contributi. Il tasso di sostituzione, ovvero a che percentuale del salario degli ultimi anni corrisponde la pensione, viene calcolato con un’aliquota del 2% per gli anni di contribuzione. Perciò, 2%*40=80%, l’80% di 2500 euro è 2000 euro, l’ammontare lordo della pensione per questo lavoratore. Consideriamo adesso il contributivo. Utilizzando un simulatore online per il calcolo della pensione, calcoliamo l’ammontare per un lavoratore dipendente nato nel 1995, che ha cominciato a lavorare nel 2020 e che va in pensione nel 2060, con 40 anni di contributi. La retribuzione lorda iniziale è di 1200 euro e questa cresce fino a raggiungere quota 2455,69 euro al momento del pensionamento. Ponendo caso che l’economia vada male (equiparando il tasso di capitalizzazione del PIL pari a 0,5), la pensione lorda mensile è di 957,59 euro (netta 853,46), con un tasso lordo di sostituzione rispetto all’ultimo salario del 38,99%. Si capisce quindi quanto distacco ci sia tra i due sistemi pensionistici. Nel caso in cui l’economia vada leggermente bene (tasso di capitalizzazione pari a 1,5), la pensione lorda mensile sarà di 1.181,94 euro mentre la netta di 1007,83 euro, con un tasso lordo di sostituzione del 48,13%. Ovviamente queste non possono essere previsioni esatte al 100%, ma la differenza notevole tra i tassi di sostituzione pre e post riforma è innegabile.

E questo per un lavoratore dipendente che ha versato 40 anni di contributi con un’aliquota del 33% sulla retribuzione lorda. Adesso, provate a immaginare in che condizioni andrà in pensione il lavoratore che per anni ha fatto stage, lavoro sommerso, lavoro dipendente inquadrato come autonomo, che ha ricevuto stipendi irrisori perché “è giovane e deve fare la gavetta”. Provate a immaginare chi ha dovuto lavorare part-time, quindi con una retribuzione ridotta, o ha dovuto licenziarsi perché non poteva fare affidamento sullo Stato per l’accudimento dei figli o dei genitori. Provate a immaginare chi è stato sempre relegato in posizioni basse e precarie perché discriminato per qualsiasi motivo, che sia etnia, genere od orientamento sessuale. La situazione è grave e l’attuale sistema di pensione sociale non basta a risolvere il problema. C’è bisogno di un cambiamento profondo.

Senza contare che il passaggio al contributivo non è avvenuto nel 1995, ed è qui che si pone il fatto più grave del divario intergenerazionale in Italia. Il sistema sarà a pieno regime solo per coloro che sono entrati nel mercato del lavoro dopo il 1995, proprio nel periodo della flessibilizzazione che li avrebbe costretti alla precarietà perenne. Chi aveva meno di 18 anni di contributi avrebbe avuto il periodo fino al 1995 calcolato secondo il metodo retributivo e quello successivo secondo il contributivo. Secondo la riforma Dini poi, coloro che avevano più di 18 anni di contributi avrebbero goduto interamente del metodo retributivo. Questo è stato poi modificato dalla Riforma Fornero, che ha stabilito l’entrata in vigore del calcolo contributivo per il periodo successivo al 2012 per questo gruppo di lavoratori. Dopo la riforma Fornero, quindi, coloro che avevano più di 18 anni di contributi nel 1995 avrebbero avuto la pensione calcolata secondo il retributivo per il periodo fino al 2012 e con il contributivo per gli anni di lavoro successivi.

 

Stiamo facendo debito per pagare le pensioni?

Si potrebbe obiettare che il sistema precedente era troppo generoso e che ancora oggi non ci siamo liberati del debito che ha generato. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Sicuramente la presenza di due pensioni (anzianità e vecchiaia) che spingevano a una bassa occupazione nella fascia 50-60 anni e gli abusi del sistema basato sulla retribuzione degli ultimi 5 anni (promuovendo ad esempio ai massimi livelli in modo artificioso) hanno creato un problema. Si stimava un gap di circa 20 punti percentuali tra il tasso di contribuzione dell’epoca e quello necessario a finanziare il sistema (stando a quanto riportano le studiose Brugiavini e Fornero in un articolo accademico del 1999). Tuttavia, era proprio necessario correggere questi errori addossando interamente le conseguenze sulle spalle di chi è entrato nel mercato del lavoro dopo il 1995? Se si guarda alla situazione delle finanze pubbliche, dopo la crisi del 1992 l’Italia ha quasi sempre avuto un attivo di bilancio primario, fino alla crisi del 2020. Il bilancio primario è la differenza tra quanto entra nelle casse dello Stato e quanto questo spende senza considerare le uscite legate al debito. Il fatto che il bilancio primario sia stato attivo significa che per anni abbiamo versato più di quanto è stato speso per i cittadini italiani. In realtà questo è avvenuto perché il bilancio generale, quello che include i pagamenti per il debito, è sempre stato in deficit. Cosa significa questo? Significa che noi attualmente paghiamo pensioni che hanno tassi di sostituzione ancora decisamente alti (i dati più recenti dell’OECD sono 2014-2016 e mostrano che il tasso di sostituzione in quel periodo era addirittura aumentato ed era tra i più alti d’Europa) senza produrre nuovo debito e che i nostri problemi attuali derivano dal fatto che non riusciamo a ripagare quello generato tra gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90. Viene da chiedersi quindi perché chi è entrato nel mercato del lavoro dopo il 1995 deve pagare con i propri contributi pensioni ad alto tasso di sostituzione (il sistema in Italia è infatti a ripartizione e non a capitalizzazione, cioè le pensioni derivano dai contributi versati dalle generazioni che lavorano) quando riceverà una misera somma rivalutata secondo la crescita del PIL come se lui avesse investito quei soldi in un fondo quando invece li ha versati a un gruppo di persone. Sì, la base contributiva dell’Italia (popolazione attiva) diminuirà, il sistema rischia di essere sotto pressione, ma cosa è stato fatto negli anni per aumentare una sana partecipazione al mercato del lavoro, basata su legalità e non sfruttamento? Cosa è stato fatto per migliorare la partecipazione femminile, la partecipazione dei giovani, la partecipazione di coloro che non hanno la cittadinanza italiana? Ovvio queste categorie non devono essere viste solo con il fine utilitaristico, ma quello che si vuole sottolineare è che una società inclusiva sarebbe stata migliore anche dal punto di vista della razionalità economica che tanto piace nominare a chi sostiene che lo Stato deve essere ridotto al minimo indispensabile.

 

La pensione privata può risolvere il problema?

In vista di un futuro calo notevole della pensione pubblica, ai futuri pensionati italiani è stato proposto di partecipare a dei fondi pensione integrativi, i cui benefici si basano sui rendimenti dei contributi versati. Secondo la Commissione di Vigilanza dei Fondi Pensione (COVIP) nel 2020 i partecipanti a queste soluzioni integrative erano 8,48 milioni. Considerando che, secondo l’INPS, il numero di lavoratori nel 2019 era di 25,47 milioni, si stima un tasso di partecipazione del 33,3%. Attualmente quindi, meno della metà dei lavoratori è coperta da una pensione integrativa, forse perché per alcune persone potrebbe essere difficile partecipare a questi fondi e non tutte le aziende offrono questa possibilità. Inoltre, il ruolo della pensione privata deve essere per l’appunto integrativo, non si può pensare di ridurre a un livello insufficiente la pensione pubblica perché ormai esistono queste opzioni assicurative. Anche volendo ignorare il problema di coloro che non possono permettersi di essere assicurati, la pensione privata pone dei problemi anche per chi partecipa a questi piani. Essa è infatti sottoposta ai rischi di investimento (se il denaro viene investito male si rischia di perderlo), di inflazione (dato che è denaro accumulato precedentemente, una crescita alta dell’inflazione rischia di erodere il valore del capitale) e di longevità (i fondi normalmente non garantiscono una rendita a vita ma solo per un periodo definito, anche se questa regola varia a seconda del piano). A questo proposito, si ricorda che in passato esisteva un sistema misto a capitalizzazione (pensione accumulata in un fondo) e a ripartizione (pensione versata dalle generazioni attive), ma la parte a capitalizzazione è stata abolita perché l’inflazione del dopoguerra ha distrutto il valore dei fondi (sempre secondo quanto si legge nell’articolo di Fornero e Brugiavini). Lo stesso fenomeno si è verificato ad esempio in Giappone (come riportato dallo studioso Sakamoto Junichi in un articolo del 2009). Quindi, sebbene la pensione a capitalizzazione non è soggetta ai problemi derivanti dal calo della popolazione attiva, bisogna ricordare che pone notevoli rischi se si fa dipendere l’adeguatezza della pensione a uno standard di vita decente dalla partecipazione a questi piani.

 

Ma esistono alternative?

Quante volte si sente dire che la flessibilizzazione del lavoro è l’unico modo per garantire occupazione ai giovani e per portare il paese alla crescita. Curiosamente però questa flessibilizzazione c’è da più di 20 anni ormai e il problema della crescita economica è sempre presente. Non solo, il nostro paese è stato colpito da un calo della produttività e questo, secondo diversi studiosi, è anche legato al fatto che le imprese non investono nella formazione dei lavoratori (perché è inutile formare qualcuno se lo sostituisci dopo poco) e le famiglie non investono nella formazione dei figli (e quelle che lo fanno si ritrovano dei figli sovraistruiti per il panorama produttivo italiano). Sostanzialmente, anche considerando che il contratto a tempo determinato nella maggior parte dei casi non è un metodo per selezionare i lavoratori che si vogliono assumere a tempo indeterminato (si vedano ad esempio gli studi di Barbieri e Scherer del 2009 e di Berloffa et al. del 2015), si evince che il tessuto economico italiano è basato quasi esclusivamente sulla riduzione dei costi e investe poco in formazione e in ricerca e sviluppo. In questo senso, l’Italia sembra quasi soddisfare la visione che auspicava per lei l’economista tedesco Erber, che in un articolo del 2011 abbastanza discutibile, diceva che il problema dell’economia italiana era che non aveva adeguato il costo del lavoro a quello dell’Europa dell’Est che ci faceva concorrenza. Come se dovessimo tornare indietro invece che andare avanti.

Intendiamoci, in Italia esiste un problema di costo del lavoro, ma in questo senso esso è legato soprattutto al peso fiscale del lavoro. Il cuneo fiscale (quanto la tassazione pesa sul lavoro) è tra i più alti in Europa a causa sia degli alti contributi di previdenza sociale, sia dello sbilanciamento dell’IRPEF verso i lavoratori dipendenti (che attualmente pagano più del 60% di questa tassa contro circa il 6% degli autonomi secondo le stime del Dipartimento delle Finanze). Come alleggerire il peso fiscale del lavoro senza conseguenze gravi per il bilancio dello Stato? Molti propongo di aumentare l’IVA, soluzione non adeguata in un paese con alte disuguaglianze sociali quale è l’Italia (le aliquote differenziate diminuiscono l’effetto non progressivo ma le fasce più basse di reddito rimangono comunque le più colpite). Ciò che invece notano altri studiosi (Eyraud, Cammeraat, Crivelli) è che i valori sui quali viene calcolata l’imposta sulla seconda casa sono fermi alla fine degli anni ’80, situazione assolutamente iniqua. Rivalutare gli immobili potrebbe portare quindi a un abbassamento dell’aliquota IRPEF per i redditi più bassi senza conseguenze (e volendo anche con surplus) per il bilancio dello Stato. Bisognerebbe pensare anche ad abolire i meccanismi dell’IRPEF che favoriscono i redditi più alti. Senza contare che l’IRPEF, che con tutti i suoi difetti almeno sulla carta è progressiva, è solo la terza fonte di finanziamento dello Stato, superata da contributi di previdenza sociale (ad aliquota piatta) e da IVA (in base ai dati OECD), fonti di gettito non progressive. Non c’è da stupirsi quindi che secondo il World Inequality Database, la percentuale di PIL detenuta dal 10% più ricco della popolazione in Italia, al netto della tassazione, sia aumentata costantemente negli anni, fino a superare nel 2015 la percentuale detenuta dal 50% più povero. È evidente che il sistema fiscale non sta più svolgendo il suo ruolo più importante: la redistribuzione della ricchezza. È da qui che nasce necessariamente ogni tentativo di diminuire il divario sociale che ci affligge. Chi parla di flat tax puntando il dito contro l’austerità nei confronti di nuovo debito (anche se questo deve essere effettivamente preso in considerazione in periodi di crisi straordinaria come è avvenuto nel 2020), non fa gli interessi di chi oggi fatica ad arrivare a fine mese, perché promuove un modello fiscale paradossale (difficile che qualcuno ci presti soldi se le entrate fiscali diminuiscono, a meno che le minori tasse pagate dai ricchi non vengano compensate da più tasse pagate dai poveri), e perché attua una politica fiscale A DANNO dei più poveri impedendo la redistribuzione della ricchezza. Ad alcuni questo potrebbe sembrare ovvio, ma dato lo spazio che i media lasciano a questo tipo di dichiarazioni sembra importante decostruirle esplicitamente.

Riforma fiscale in senso progressivo e contrasto all’evasione sono le misure che possono garantire il ripagamento del debito, la sostenibilità di uno Stato più presente e un calo del peso fiscale sul lavoro dipendente. Per fare questo però occorre smorzare la falsa retorica della trickle down economics e della possibilità di raggiungere la ricchezza grazie alle proprie capacità, l’idea che siamo in balia della globalizzazione quando l’Italia è tra i paesi europei in cui i giovani stanno peggio (non risulta che gli altri paesi non siano globalizzati e allora perché i nostri coetanei francesi o norvegesi hanno più diritti di noi?), l’idea che è necessario tagliare l’amministrazione pubblica così che per i controlli sulle regolarità fiscali o lavorative due persone dovranno fare il lavoro di venti, insomma è necessario ripensare completamente le nostre idee sull’economia che sono state influenzate da anni di liberismo selvaggio a livello globale. Senza dimenticare ovviamente il lavoro, motivo per cui ho scritto questo articolo. Un lavoro estremamente precario non fa bene in primo luogo a noi giovani, ma anche alle casse dello Stato e alla produttività del nostro paese.

Dalla situazione attuale sembra quindi emergere che l’unica alternativa non è il dominio del mercato in ogni contesto ma bensì uno Stato che non abbia paura di risolvere la questione delle disuguaglianze per evitare una catastrofe sociale. Questo dovrebbe essere il compito della sinistra, che purtroppo in Italia e in Europa ha paura a staccarsi dall’ideologia di centro. A consolazione di queste persone impaurite possiamo ricordare che anche Karl Polanyi, non esattamente un comunista, ha evidenziato quanto fosse pericoloso credere ciecamente nell’autoregolamentazione del mercato, specialmente per quello del lavoro.

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