Lettere dalla quarantena: la lezione del pangolino
Lettere dalla quarantena: la lezione del pangolino

Lettere dalla quarantena: la lezione del pangolino

di Manfredi De Bernard

Da dottorando nelle scienze sociali, i miei ritmi lavorativi cambiano di contesto, ma restano fondamentalmente gli stessi. Studio e scrivo sei ore al giorno dal tavolo della cucina della mia casa italiana e non dalla stanza polverosa del dipartimento di Londra, ma poco ci passa. C’è da dire che, insieme agli acari, in quella stanza normalmente ci sono anche i miei colleghi, con cui per adesso interagisco al limite su WhatsApp, ma non è la stessa cosa.
Oltre alla banale considerazione che il digitale non sopperisce alla presenza fisica di una persona cara nella stessa stanza – o allo stesso tavolino di metallo con tre spritz come cappello – tutti, e tutti insieme, ci stiamo rendendo conto che, alla fine, l’unica cosa che ci manca sono gli altri.
Gli altri, le persone che ignoriamo, che ci infastidiscono alle poste o dal medico, o che arriviamo a discriminare, a disprezzare, ci mancano da morire dopo soli tre giorni di isolamento. Non ci sono corsi di marketing online, routine di miglioramento personale o esilaranti dirette su Instagram che combattano l’appiccicosa apatia della solitudine, perché gli altri sono la cosa più importante che abbiamo.

Spero che questo si pianti in testa, che resti lì anche quando facciamo richieste alla politica e ai suoi abitanti, chiedendo che gli altri siano la priorità e che lo siano sempre, perché quando soffrono, noi soffriamo con loro e quando non ci sono, ci mancano come la libertà di uscire a fare due passi.
L’epidemia e la sua paura ci ha ricordato quanto tutti siamo uguali e quanto il problema di uno sia in realtà il problema di tutti. Ci siamo lavati le mani fino a grattare via la pelle dalle nocche, abbiamo messo guanti e mascherine, tanto per noi quanto per gli altri, perché ogni starnuto era un pericolo per tutti noi, tutti insieme. L’epidemia ha fatto riscoprire a tutti un senso di collettività che dovremmo cucirci al petto, perché non tutto si risolve con la fine della quarantena.

Il coronavirus ha ucciso per primo il benaltrismo e quanto è vero Iddio, ballerò sulla sua tomba. Perché siamo tutti tristemente uguali di fronte alla malattia, o quasi, e nessuno ha potuto dire che i problemi sono altri, che non sono queste le priorità degli italiani, e con la lista chiara tra le mani, l’emergenza viene gestita come merita. Ma quando la quarantena finirà e saremo tutti insieme a correre per le strade, qualcuno salterà meno in alto e tirerà meno coriandoli, perché se al coronavirus avranno trovato un vaccino, nessuno avrà risolto l’affitto che non si riesce a pagare, i turni stremanti in fabbrica, i mariti che picchiano le mogli, che non soffocano meno del virus del pangolino.
Il coronavirus ci ha di fatto spinto tutti nella stessa categoria, ci ha divisi in infetti e potenzialmente infetti, così che siamo diventati altruisti senza sforzi, perché ha legato in modo diretto ed evidente la nostra serenità e salute a quella degli altri. Ma l’equazione vale sempre, anche quando non riceve un annuncio a fine giornata dalla protezione civile.

In un giorno qualsiasi del 2018, se Angelo Borrelli si fosse seduto al tavolo, accerchiato dai giornalisti e dai microfoni puntati come lance, con fare mesto avrebbe detto che, quel giorno, in mille e quindici persone si erano ferite sul posto di lavoro e che di questi, tre, erano morti. Avrebbe girato pagina, si sarebbe sistemato sulla sedia, e avrebbe raccontato che, sempre quel giorno, centotrentaquattro donne erano state vittime accertate di violenza, ma chissà quante stavano in silenzio. Avrebbe preso fiato e avrebbe continuato a leggere che, nell’ultima settimana, almeno due erano morte, uccise però stavolta dal marito o dal compagno, mica dallo starnuto di un pangolino.
Io non ho settantacinque anni e né debilitanti patologie pregresse. Ho venticinque anni e al massimo mi viene mal di pancia quando mangio la ricotta, ma non per questo credo che i problemi siano ben altri. Non sono omosessuale, transessuale né tantomeno una donna, ma questo non mi impedisce di volere che questi siano sereni e al sicuro in ogni momento della loro vita. E non lavoro in fabbrica, ma non credo che gli operai debbano lavorare tanto e tanto male. Non ho mai vissuto l’ansia straziante di non arrivare a fine mese, ma voglio uno stato che tassi i più ricchi per redistribuire a chi ha meno.
Uniti e compatti come adesso, dovremmo esserlo sempre, perché i problemi di uno sono sempre i problemi di tutti, anche quando non ci pare così evidente come col coronavirus.
Noi siamo gli altri, questo ci ha insegnato il pangolino.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

http://www.nextprato.it/
X