Seun e la cittadinaza – Il volto dell’altro
Seun e la cittadinaza – Il volto dell’altro

Seun e la cittadinaza – Il volto dell’altro

di Seun Insingbadebo

Ricordo i miei genitori – ambedue naturalizzati italiani, quand’io avrò avuto approssimativamente cinque o sei anni di vita –, mio padre in particolare, molto aperto alla cittadinanza, da sempre ben calato nella realtà politica e sociale d’un paese polveroso quale è questo, ascoltare di tanto in tanto Adriano Celentano, mentre il mangiacassette alternava canzoni legate alla cultura musicale predominante negli anni della sua giovinezza e dei brani tipici della sua terra natia; mia madre invece, più restia, attaccata alle sue radici, più riservata quando eravamo chiamati al voto, apprezzare di rimando i programmi di una TV leggera ai cupi telegiornali, preferire i motivi della sua infanzia – che spesso le tenevano compagnia durante le faccende domestiche – ai pezzi che passavano in radio e sicuramente gradire il cibo. Ricordo che in casa si parlava italiano, spesso tra lo stupore di chi invece tirava le fila del partito “lo parli bene l’italiano per essere straniero”, yoruba – la mia lingua d’origine – quando mio padre e mia madre si perdevano dietro qualche battibecco o sempre quando quest’ultima ci avvertiva che “ounje” era pronto in tavola. Diciamo che mia madre ha sempre conservato l’abitudine di rivolgersi a noi in yoruba, mio padre lo faceva in maniera più contenuta, magari lo ascoltavi parlarlo durante una telefonata, tra qualche ospite di passaggio, una preghiera o – solo di domenica – quando si metteva a leggere dei racconti ed io chiedevo lui cosa significassero date parole. Ad oggi, in quel melting pot dove anche l’inglese – la lingua della gran parte delle cassette, dei CD, dei videogiochi – si mescolava prepotentemente alle espressioni dialettali, mi è sempre risultata banale la domanda “di dove sei?”. Ancora più banale se alla risposta per me più ovvia venivo liquidato dal classico “no tu non puoi essere italiano, sei nero”.

Io sono il più piccolo di tre fratelli, uso i miei genitori soltanto come metafora. Perché lo faccio? Perché per me una domanda del genere equivale a chiedere “a chi vuoi più bene, a tua madre o tuo padre?” È indubbio che siano caratteri profondamente diversi: mio padre è venuto in Italia per studiare storia dell’arte, mia madre l’ha seguito per amore, mio padre ha lavorato per anni come tecnico della telefonia, mia madre al tempo lavorava in un’industria tessile pratese, spesso ha rivestito quei lavori umili per cui “sono bravi gli extracomunitari”, mio padre si emozionava al parlare di Pertini o Craxi, si animava per ogni competizione sportiva, si tratteneva dal piangere quando guardava una scena toccante, mia madre di rado non la vedevi sorridere o canticchiare, amava ballare. Come si può semplificare tutto questo? Posso dire che mi sento più simile a mio padre piuttosto che a mia madre, come posso dire che mi sento più italiano che nigeriano, ma non posso accettare che qualcuno mi dica a chi devo volere più bene tanto meno a quale paese devo essere più legato. Quello spetta a me e mi deve essere data l’opportunità di scegliere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

http://www.nextprato.it/
X