Di Marco Saccardi e Stefano Ciapini
Nel Partito Democratico si sta consumando l’ennesima scissione, l’ultima di una purtroppo lunga serie in questi anni di storia. Matteo Renzi ha deciso di lasciare il partito, costruendo quella che lui ha definito “Una casa nuova per fare politica in modo diverso” per sé ed i suoi sostenitori. Stavolta si tratta di una scissione chirurgica e programmata, frutto di una strategia messa in atto da mesi, annunciata in sordina già durante il Congresso con la candidatura di Roberto Giachetti.
Oggi i suoi uomini occupano posizioni di rilievo in Parlamento ed al Governo, in quell’esecutivo nato solo da una settimana grazie all’importante lavoro del Partito, del suo Segretario, dei militanti tutti. C’era già chi sottotraccia sapeva vergognosamente cosa sarebbe successo, tanto che il sito internet di “Italia Viva” era già caricato in rete da inizio agosto. È stato uno strappo che la comunità del Partito Democratico non si meritava.
Quando si consuma una scissione a soffrirne sono coloro che portano avanti un lavoro faticoso e impegnativo sul territorio: i nostri iscritti, le nostre amministrazioni che lavorano in una nube di incertezza, i circoli, i volontari alle feste, i nostri simpatizzanti. A loro non pensa mai nessuno quando si fa una scissione abbandonando una casa comune costruita con tempo e fatica. Che poi una vera e propria scissione non è. Si parla di “scissione” davanti a una frattura intorno ad un tema o ad un ideale, molte volte improvvisa e drammatica. Qui assistiamo a un “senatore semplice” che esce seguito dai suoi pretoriani; una scelta personale ed egoista, come spesso purtroppo accade in questi casi. Rispetto a chi uscì per il Job’s Act o per i veleni del Referendum Costituzionale, al di là del merito, la scelta odierna appare ancor più vuota e strategica, semplicemente frutto di un mero calcolo di convenienza.
La fuoriuscita di Renzi, tuttavia, non ci deve automaticamente far pensare alla naturale risoluzione dei problemi del PD e della sua collocazione politica, sarebbe un’illusione. Abbiamo a che fare con un partito che è sempre stato ostaggio di correnti personali e di potere (oggi più che mai) che hanno fatto il bello e cattivo tempo sui territori, impedendo un serio dibattito congressuale sulla natura del nostro partito.
È ora invece di interrogarsi seriamente su quali siano i valori e le idee da seguire per affrontare i tanti temi del nostro Paese, riuscendo a costruire un’unione di intenti che fino a oggi è stata fallace per via dei tanti egoismi. Il dibattito intorno alle prossime elezioni regionali, con delle primarie velenose all’orizzonte tra correntisti di mestiere, è un esempio lampante di questa urgenza. Le idee e le proposte devono tornare ad essere le protagoniste del nostro partito, che abbia nuovamente come elemento centrale una comunità di valori e di intenti condivisi, plurale e rispettosa, che sia in grado di affrontare le sfide future.
La nostra generazione, la prima vera “generazione democratica” in quanto cresciuta politicamente nel PD, dovrà essere protagonista di questo difficile ma necessario percorso. Noi, che abbiamo sempre lavorato con un metodo diverso e affrontato i temi con una radicalità ed un coraggio maggiori del nostro stesso partito, abbiamo adesso la responsabilità di spostare il Partito Democratico sui binari di un partito popolare, radicato sui territori, attento ai diritti, all’ambiente, ai problemi del lavoro, alla questione della rappresentanza. Solo così riusciremo a trovare un nuovo modo di stare insieme e scrivere una nuova storia, che cambi passo rispetto a quello che abbiamo visto fino ad oggi. Noi ci siamo.