Europa: lo Stato di un’Unione senza meta
Europa: lo Stato di un’Unione senza meta

Europa: lo Stato di un’Unione senza meta

di Matteo Gori, presidente della Gioventù Federalista Europea di Prato

Noi non siamo gli Stati Uniti d’Europa. La nostra Unione europea è molto più complessa. E ignorare questa complessità sarebbe un errore che ci porterebbe a soluzioni sbagliate”.

È stato chiaro J.C. Juncker, Presidente della Commissione Europea, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione tenuto a Strasburgo davanti al Parlamento Europeo, lo scorso 14 Settembre. Una presa di consapevolezza amara e incontestabile per capire l’attuale situazione politica europea. Un discorso, quello di JCJ, denso di contenuti propositivi e importanti su quello che potrebbe e dovrebbe fare l’Unione se solo gli Stati lo volessero. Il tutto contraddistinto da un apprezzabile realismo e un pacato invito all’azione, conscio che “il mondo ci guarda” ma finora siamo rimasti a guardare.

Non siamo gli Stati Uniti d’Europa, l’attuale UE è qualcosa di diverso, è doveroso ripetercelo forte e chiaro.

Già, perché occorre partire da questo tipo di affermazioni per capire cosa sia oggi l’Unione. Un ibrido tra una confederazione – realtà sovrane che stringono accordi in certi ambiti – e una federazione, ma molto più vicino al primo modello che al secondo (incarnato solo dalla Banca Centrale Europea). Da questo conseguono: Stati vincolati a Trattati e non a una Costituzione; un bilancio europeo che è appena lo 0,9% del PIL totale degli Stati; 28 eserciti e non un esercito unico, Stati che si fanno concorrenza fiscale tra loro (vedi caso Apple-Irlanda); un’imbarazzante incapacità di gestire i flussi migratori; un Parlamento – ovvero i rappresentanti dei cittadini europei – e una Commissione – il cui attuale Presidente è passato indirettamente da un voto democratico (grazie al sistema degli spitzen Kandidaten) – in difficoltà nel ritagliarsi uno spazio decisionale perché sempre sottoposti alla volontà del Consiglio dei Capi di Stato, dove si accordano i rispettivi interessi nazionali all’unanimità e quindi con compromessi al ribasso.

Una situazione che non può che essere definita, sempre da Juncker, di crisi esistenziale. Si è perso consapevolmente l’orizzonte politico, l’obiettivo dell’unione politica.

Una prospettiva oggi impensabile, specie se neanche le singole necessità contingenti, che richiederebbero un’Unione che sia più della somma dei singoli Stati, vengono affrontate con gli strumenti adatti. Servono investimenti per la crescita e contro la disoccupazione? Commissione e Parlamento li richiedono, ma gli Stati Membri hanno firmato e ratificato il Fiscal Compact fuori dai Trattati. Sempre Commissione e Parlamento hanno fatto proposte in merito alla gestione dei flussi migratori che prevedano un’equa distribuzione su territorio europeo e una Guardia costiera e di frontiera europea, ma sono rallentati dai Governi che rifiutano tali decisioni (arrivando, come in Ungheria, a indire un referendum sull’applicazione di una normativa europea giuridicamente vincolante).

Ci si accontenta di risolvere le emergenze con riunioni notturne (come per la crisi greca) che non risolvono i problemi, semplicemente li rimandano – possibilmente a dopo la successiva elezione politica nazionale – e ad affrontare le crisi strutturali con frequenti summit buoni solo a ripetere gli stessi propositi e a fare quanto necessario per non intaccare la sovranità nazionale. Emblematico l’ultimo tenutosi a Bratislava, carico di aspettative per l’importanza delle questioni sul tavolo– dalla gestione dei flussi migratori alla Brexit, dalla lotta al terrorismo al patto di stabilità – ma rivelatosi, a detta dei più, assai inconcludente.

Continuare con questa linea di compromessi e prove di forza non porterà agli Stati Uniti d’Europa, ma solo al perdurare stanco di un sistema intergovernativo che improvvisa step by step e che si trova a difendere il proprio status quo dai movimenti euro-scettici. Quanto può durare un’Unione Europea così restia al cambiamento? Nessuno lo sa, ma i momenti decisivi per capirlo si stanno avvicinando. La gestione della Brexit, la partita che si giocherà sulle revisioni dei Trattati e del bilancio comunitario previste per il 2017, e le prossime elezioni del 2019. Bene che possa andare rimarremo intrappolati nell’attuale situazione, un fragile equilibrio di basso livello. O peggio – ma dipende dai punti di vista – potremo tornare indietro, e ripudiare l’integrazione europea, come ci suggeriscono i nazional-populisti che tanto si stanno facendo largo nell’opinione pubblica.

In realtà, la grande sfida, che chiunque creda nell’Europa ha davanti, sta nell’avere la forza di pretendere una terza via. La via verso la creazione di un Governo democratico Europeo federale, che abbia gli strumenti necessari ad affrontale le sfide economiche, sociali e ambientali che il mondo globalizzato ci sta ponendo in modo sempre più evidente. Un sistema di governo che si basi sul principio di sussidiarietà. Tutte le competenze al livello più basso possibile, a salire fino al governo centrale con poche competenze, ma fondamentali: politica estera, sicurezza interna, moneta e grandi linee di investimento.

È apprezzabile che il 22 Agosto scorso Hollande, Merkel e Renzi si siano incontrati sull’isola di Ventotene, dove fu elaborato nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, con la collaborazione di Eugenio Colorni, il Manifesto per un’Europa libera e unita. Alle parole non sono però seguiti fatti di alcun tipo. E sono quelli che è necessario pretendere, perché le parole servono a poco. Perché quel Manifesto, simbolo di riscossa e rinnovamento ideale (Graglia), pur non lasciando alcun lascito concreto nell’impostazione dell’attuale UE, ha dei punti fermi validissimi ancora oggi. Prima fra tutte la percezione che lo Stato Nazione sovrano sia arrivato al capolinea, seguita dalla necessità di superare la sovranità assoluta degli stati europei con una federazione europea modellata sull’esempio dello Stato Federale statunitense. Inoltre la sempre valida necessità di distinguere la classe politica tra progressisti e conservatori – non più destra e sinistra tout court- in base all’adesione o meno all’ideale federalista.

Una linea di divisione quest’ultima che spesso rispecchia anche la società civile quando si parla di Europa. È alla parte progressista del popolo europeo che tocca mobilitarsi per pretendere i cambiamenti di cui abbiamo bisogno. L’Europa non cade dal cielo, e oggi più che mai c’è bisogno di una grande spinta dal basso, che coinvolga soprattutto i più giovani, per il rilancio del “sogno europeo”.

Il 25 Marzo, in occasione del 60esimo anniversario dei Trattati di Roma, il Movimento Federalista Europeo e il Movimento Europeo, insieme a tantissime altre forze progressiste contribuiranno a questa spinta con una delle tante forme di mobilitazione: una manifestazione di piazza, nella Capitale.

Chi vuole un futuro europeo, per quanto sia difficile il presente, ha il dovere di non arrendersi e di fare quanto è nelle sue possibilità per garantirlo ai suoi figli.

Un commento

  1. Giacomo

    Condividendo l’analisi, vorrei sinteticamente esprimere il mio pensiero: questa Unione Europea che non mi/ci piace (sottolineo questa), paga a mio parere soprattutto un grave errore d’origine, ovvero l’eccessiva velocità con cui è stata creata e il suo altrettanto troppo veloce allargamento… piena di incongruenze, non chiarezze, egoismi e furberie nazionali, pasticci e raffazzonamenti vari. Era ed è tutt’ora illogico pensare che quest’area del globo, costituita da Nazioni portatrici di culture, mentalità, interessi diversi, createsi in millenni e che si sono anche aspramente combattute fino ad appena 70 anni fa, nel giro di pochi anni (qualche decennio) fosse pronta ad un’unione piena e completa. Molto più logico sarebbero stati una serie di cauti passaggi intermedi (es. una Confederazione intermedia) propedeutici al compimento di passi successivi. Ci sono tempi “naturali” che vanno intelligentemente rispettati, perchè le accelerazioni forzose possono essere seriamente controproducenti…e direi che abbiamo prove incontrovertibili. Le spinte nazional-populistiche in atto in tutta Europa sono figlie di questi errori e quindi… “chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Secondo me finchè i principali Paesi fondatori (insieme) non troveranno il coraggio di “tirare la riga” bloccando questo “andazzo” per riprenderlo da un “verso” diverso, il rischio è una lunga agonia il cui destino non può essere altro che un irrimediabilmente fallimento, e chissà quando l’idea degli Stati Uniti d’Europa potrà essere ripresa . E con questo risultato la conseguenza sarà la sparizione anche delle singole entità nazionali, così come fino ad oggi le abbiamo conosciute, stretti fra colossi economico-finanziari-demografici quali la Cina, la Russia, l’India, gli Stati Uniti, senza dimenticare le spinte di altra natura provenienti dal continente Africano e dall’area medio-orientale.

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