di Sara Bichicchi e Maria Logli
Un figlio può essere – o anche no – il sogno di una coppia, ma quando farlo? Come conciliare vita familiare e carriera lavorativa? In Italia, inutile negarlo, non tutto funziona perfettamente e tra asili nido talvolta insufficienti e difficilmente accessibili e una stabilità economica che viene raggiunta sempre più tardi, la natalità ha toccato i minimi storici: il Belpaese ha il tasso più basso dell’Unione Europea e, stando ai dati dell’Istat, nel 2015 le nascite sono state 488 000, inferiori di 15 000 unità rispetto al 2014 e record negativo dall’Unità d’Italia. L’età media delle madri, che ora generano da uno a due figli a testa, tocca così i 31 anni e mezzo e si avvicina alla soglia oltre la quale la fecondità cala drasticamente. Una situazione allarmante che rischia di rendere il nostro un paese di anziani, con tutto ciò che questo comporta a livello economico: gli ultra-sessantacinquenni sono ora circa 13.4 milioni, pari al 22% della popolazione, contro gli 8.3 milioni (13,7 %) di under 14.
Gli italiani, dunque, non fanno più figli, ma perché? I fattori che hanno contribuito, e contribuiscono tuttora, al tracollo delle nascite sono molti e spaziano da motivi di carattere economico-lavorativo a cause ideologiche, da scelte personali a questioni prettamente biologiche e sanitarie. Su quest’ultime si sarebbe dovuto concentrare il Fertility Day, l’avversatissima iniziativa promossa dal ministro Beatrice Lorenzin che, tuttavia, ha ricevuto numerose critiche sia per l’aspetto comunicativo che per la sua superficialità contenutistica.
Per quel che riguarda il primo punto, le polemiche hanno posto l’accento su ciò che il ministro avrebbe dovuto fare – informare i cittadini sui numerosi rischi che possono minare la fertilità – e ciò che ha fatto, ovvero una disastrosa campagna mediatica all’insegna di messaggi fraintendibili, se non addirittura offensivi: su tutti spiccano la famigerata clessidra, che rischia di divenire simbolo della data di scadenza non tanto della fecondità quanto della donna stessa, e la discutibile idea di presentare, attraverso l’immagine del rubinetto che gocciola, la fertilità come un bene comune. Un’analogia, quella tra l’acqua e la fertilità, che non si regge in piedi: bere è un diritto ed è essenziale, mentre crescere un figlio, oltre ad essere una grande responsabilità, è una libera scelta. La pessima comunicazione del Fertility Day ha poi avuto il suo culmine nelle ultime accuse di razzismo, dovute all’infelice associazione di “cattive compagnie” con persone di colore.
La critica sugli aspetti contenutistici, tuttavia, è persino più interessante.
Se è vero che il ministro ha svolto un lavoro per certi aspetti denigratorio e retrogrado, per altri ingenuo e superficiale, e non ha affrontato un tema complesso come quello della denatalità con la giusta serietà e attenzione, d’altra parte il problema non deve esser visto solo dal punto di vista economico.
Ma andiamo con ordine.La Lorenzin ha accennato a un piano volto a rialzare la natalità già nel 2014, quando, ai microfoni di La Repubblica, dichiarava di voler preparare un progetto ambizioso che doveva coinvolgere, tra gli altri, anche i ministeri dell’Istruzione e del Lavoro. Nel testo del 2016, però, l’elemento economico non è presente se non marginalmente e gli aspetti preponderanti sono ben altri.
Per cominciare, il Piano Nazionale per la fertilità si articola in cinque punti fondamentali:
1)Informare i cittadini sul ruolo della Fertilità nella loro vita, sulla sua durata e su come proteggerla evitando comportamenti che possono metterla a rischio
2) Fornire assistenza sanitaria qualificata per difendere la Fertilità
3) Sviluppare nelle persone la conoscenza delle caratteristiche funzionali della loro fertilità per poterla usare scegliendo di avere un figlio consapevolmente ed autonomamente.
4) Operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione.
5) Celebrare questa rivoluzione culturale istituendo il Fertility Day, Giornata Nazionale di informazione e formazione sulla Fertilità, dove la parola d’ordine sarà scoprire il “Prestigio della Maternità”
Come si nota, trovano molto spazio all’interno del Piano il problema dell’informazione necessaria a limitare i problemi sanitari ed incentivare la prevenzione e l’importanza della consapevolezza genitoriale che preceda la condizione stessa di genitorialità. Tuttavia, è opportuno soffermarsi più attentamente sugli aspetti socio-culturali che emergono nel testo. Questo, infatti, sviluppa ampiamente alcuni concetti-chiave, tra cui quello di simmetria di genere all’interno del mondo del lavoro e della famiglia:
«Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità? La collettività, le istituzioni, il competitivo mondo del lavoro, apprezzano infatti le competenze femminili, ma pretendono comportamenti maschili. Dopo avere valorizzato le caratteristiche di indipendenza e realizzazione di sé delle bambine e giovani donne, dopo aver fatto in modo che si tendesse ad una parità di genere, che ha portato alla conquista di un titolo di studio, spesso di secondo livello e un lavoro agognato, magari di responsabilità, la maternità appare improvvisamente alle donne come un preoccupante salto nel buio, un ostacolo ai progetti di affermazione personale. Nel paese degli stereotipi di genere, quello “mammone”, dei “bamboccioni” e della pubblicità con il “mulino”, una donna su cinque non fa più figli»
Quindi, secondo la Lorenzin o chi per lei, esistono ancora ruoli femminili e ruoli maschili, comportamenti femminili e comportamenti maschili, incompatibili con il desidero di avere figli. Ci sarebbe, inoltre, una nuova indipendenza da parte delle donne, una tendenza alla parità di genere che allontana inesorabilmente la maternità. Anzi, «il Prestigio della maternità», come recitava il punto cinque del Piano. Che cosa ci sia di tanto prestigioso in una scelta che dovrebbe essere assolutamente libera, scevra da condizionamenti sociali, e perché non si parli più in generale di genitorialità, andrebbe chiesto al ministro.
Segue poi un’interessante analisi del momento di transizione culturale, o meglio, come viene definito nel documento stesso, di sovrapposizione di due modelli, che il nostro paese sta attraversando: all’Italia di pochi decenni fa, in cui tutto, dalla famiglia alla società stessa, ricordava alla donna le scadenze dell’orologio biologico e in cui il genere femminile aveva un ruolo e delle mansioni ben delineati, se ne sta gradualmente sostituendo una nuova, che però fatica a scalzare la precedente. Infatti, si sta passando a un periodo storico che attribuisce i casi di non maternità non tanto alla non intenzione di formare una famiglia, quanto alla volontà di attendere condizioni economiche migliori. Da questo scaturisce un continuo procrastinare finché, inevitabilmente, il tempo non scade.
L’atteggiamento che emerge è di tolleranza, di sufficienza piuttosto che di orgoglio per l’emancipazione femminile, per la nuova mentalità delle donne che non vogliono più sentirsi in dovere di fare figli, ma decidono di averne in modo consapevole, per il bene sia della coppia che dei nascituri. In più, tale analisi conduce purtroppo ad un tipo di proposta che rappresenta un ritorno al passato: di fronte alla grana dell’insufficiente stabilità economica delle coppie giovani, la Lorenzin non mette in atto l’annunciata collaborazione con il Ministero del Lavoro al fine di garantire tutele e agevolazioni, ma, come si legge nel paragrafo successivo, intende risolvere il problema dell’eccessivo indugio creando un clima di fiducia. Non di fiducia effettiva, data da sicurezza economica, sgravi fiscali e servizi efficienti, ma di fiducia indotta dai media, dal linguaggio televisivo, dalla comunicazione istituzionale. La Lorenzin vorrebbe, in breve, promuovere le “good news” e veicolare, tramite esse, messaggi di tranquillità e felicità riguardo la maternità che incentivino i giovani ad abbandonare le loro preoccupazioni per tornare ad ascoltare l’orologio biologico. Un provvedimento di fatto inutile, come il Fertility Day stesso, se i suoi destinatari non riescono ad arrivare a fine mese e non sono nelle condizioni di poter sfamare una bocca in più.
Se dunque le misure prese in ambito sanitario sono pure attinenti e sensate, e l’analisi storico-sociale segue un qualche filo logico, il contenuto della proposta risolutiva va nella direzione sbagliata: si volta indietro piuttosto che guardare avanti; affronta lo scoglio della denatalità non con soluzioni concrete, ma con un piano che ignora le difficoltà delle famiglie.
L’Italia, lo ribadiamo, ha i numeri più preoccupanti in Europa: secondo un’indagine dell’Eurobarometro condotta su 14 000 giovani nei 28 stati membri, un terzo di loro teme di non trovare un contratto di impiego a lungo termine e in Italia la percentuale sale al tasso record del 52%. Gli spagnoli sono il 43%, i croati il 41%, i greci il 36%.
A questo vanno poi aggiunti i problemi non secondari della disoccupazione giovanile, delle aspettative e del sostegno economico alle famiglie, che, nonostante Bonus Bebé, Family Card, progetto SIA e quant’altro, manca di sufficienti tutele sul congedo parentale, non è al passo con i tempi sulla parità di trattamento riservato a neo-mamme e neo-padri e resta problematico per quanto riguarda gli asili nido: troppo costosi quelli privati, con poche disponibilità di posti quelli pubblici.
Moltissime, dunque, sono le tematiche legate al tema della natalità da affrontare e altrettante le occasioni di confronto perse dal ministro per confrontarsi con il Ministero del Lavoro e fare dell’Italia un paese civile, prima ancora che all’avanguardia.
Quando non si hanno certezze sul futuro, è inevitabile trovare difficoltà nel fare progetti e attendere giorni migliori prima di mettere al mondo dei figli: questa sembra la scelta più responsabile, più ovvia, se non l’unica possibile. Se si vuole un paese giovane, è indispensabile innanzitutto creare le condizioni affinché le nuove generazioni procreino senza la minaccia dell’orologio biologico e del tempo che corre via: un’Italia che tuteli e sostenga la famiglia.
E’ con questa consapevolezza che andremo ad approfondire in altri articoli i vari aspetti che si legano al tema della denatalità: è importante non fermarsi a slogan e campagne mediatiche, perché crediamo che la politica non debba indirizzare i cittadini, ma fornire loro gli strumenti necessari affinché contribuiscano autonomamente alla crescita del Paese.